#AskSeaWorld: quando dare dei troll agli utenti non è mai una buona mossa

British Gas, Expo Milano 2015 e perfino la CNN: in questi anni sono stati in tanti a cedere alla tentazione di affidarsi a una bella sessione di “Questions and Answers” su Twitter per puntare un riflettore sul brand senza dover per forza organizzare una campagna. Questo perché, come dicevamo ai tempi di #AskExpo

… Quella della sessione di “domande & risposte” su Twitter è una trovata che, negli ultimi mesi, è stata messa in campo diverse volte sia dalle aziende che dalle personalità politiche: consente infatti di stabilire un canale diretto tra il brand e il suo target di riferimento, al quale viene espressamente chiesto di fare domande. Insomma si lavora sull’engagement degli utenti senza costruirci attorno una narrazione creata ad hoc: niente “gioca con noi” o “raccontaci la tua esperienza”, ma un più diretto – e in definitiva più istituzionale – “chiedimi quello che vuoi sapere”. Non a caso, infatti, le sessioni di “domande e risposte” sono spesso scelte da soggetti impegnati nella vita politica o da aziende che offrono servizi essenziali.

Ma se per le istituzioni la scelta di organizzare un “question time” risulta piuttosto comprensibile – al di là dei risultati che possono variare dallo “scarso” al “disastroso” – è un po’ meno comprensibile quando a ricorrere al Q&A su Twitter è uno dei più famosi parchi acquatici degli Stati Uniti: il SeaWorld di Orlando, in Florida. Un parco di divertimenti è, da un punto di vista comunicativo, una delle cose più “sexy” del mondo del marketing: qualsiasi creativo si sentirebbe ispirato dall’idea di dover costruire una campagna social per un parco a tema dove ci sono pesci, orche e centinaia di migliaia di visitatori l’anno.

Si dà il caso però che, un paio di anni fa, il SeaWorld di Orlando abbia visto la propria reputazione sgretolarsi sotto i propri occhi dopo che un documentario, Blackfish, ha apertamente accusato il parco di pesanti negligenze nella cura degli esemplari di orca assassina tenuti in cattività e degli altri mammiferi marini presenti nell’acquario del parco, costretti in vasche troppo piccole, con poco cibo ed esposti alle malattie. Tutto il peggio che si può dire a proposito di uno zoo o acquario che dir si voglia. Il documentario, uscito nel 2013, suscitò moltissime polemiche: nonostante la direzione del parco avesse respinto ogni accusa mossa da Blackfish, lo spettro del maltrattamento degli animali aleggiava nell’aria, il pubblico cominciò a guardare con sospetto il parco e addirittura ci furono dei tour operator che optarono per la sospensione dei viaggi organizzati al parco acquatico.

Ed ecco che, improvvisamente, il SeaWorld diventa molto meno “sexy” di quanto non lo fosse sulla carta: una débâcle difficile da gestire per i vertici del parco, che hanno intrapreso la lunga e faticosa strada per cercare di riguadagnarsi una reputazione quantomeno dignitosa. In tutto questo i social media hanno avuto un proprio ruolo. O meglio: nelle intenzioni di SeaWorld c’era appunto l’idea di utilizzare i social network come un canale diretto per raggiungere potenziali nuovi visitatori, facendoli dialogare direttamente con il brand.

Detto fatto: come ricostruisce Mashable, il 26 marzo viene lanciato #AskSeaWorld, il più classico degli hashtag per indicare un question time su Twitter. E, come nel più classico dei casi, è finita che dopo una manciata di tweet sono cominciate ad arrivare vagonate di domande “scomode” da parte di coloro che si ricordavano bene il documentario e tutte le polemiche connesse.

SeaWorld

[“Eravate fatti o ubriachi quando avete deciso di fare questa campagna social? #AskSeaWorld” – “@SeaWorld, perché date più spazio a noi per parcheggiare che a quegli animali per vivere?”]

E ancora:

SeaWorld2

[“#AskSeaWorld Quante orche sono morte nelle vostre vasche fino a  marzo 2015?” – “#AskSeaWorld Siete ancora aperti? #SvuotateLeVasche”]

E non finisce qui:

SeaWorld3

[“Avete domande sulle orche assassine? Leggi tutte le risposte qui: AskSeaWorld.com” – “Le fate morire di fame prima o dopo averle fatte esibire?”]

Fino alla stoccata finale:

SeaWorld4

[Come ci si sente a vedere che ci sono più persone che vi fanno domande sulla vostra moralità che non quelle che vi chiedono delle orche assassine? #AskSeaWorld”]

Insomma, un nuovo disastro. Risultato dell’ingenuità di chi ha pensato che un paio d’anni fossero sufficienti a “far dimenticare” un documentario scomodo, che aveva dato al pubblico un’immagine tanto negativa di SeaWorld.

Purtroppo, il web ha la memoria lunga: e anche a chi si fosse perso il documentario sono bastati un paio di tweet per scoprirne l’esistenza, ricostruire la situazione e dare addosso a SeaWorld (anche l’indignarsi nei confronti di chi compie veri o presunti atti di crudeltà sugli animali è molto “attraente”).

Ma quella di pensare che gli utenti si fossero “già dimenticati” della cattiva reputazione di SeaWorld non è stata l’unica ingenuità commessa: chi ha ritenuto che #AskSeaWorld fosse una buona idea ha peccato nel credere di essere in grado di “pilotare” gli utenti, portandoli a domandare solo quello che avrebbe fatto comodo al brand. Non è così: Twitter non è “uno spazio pubblicitario interattivo”, ma un luogo dove le conversazioni avvengono indipendentemente da un “tema imposto dall’alto”, e si evolvono prendendo una piega decisa dagli utenti stessi.

Davanti a un fallimento come quello di #AskSeaWorld, i social media strategist di SeaWorld avrebbero dovuto tirare i remi in barca e capire da che parte cominciare per ricostruire un’immagine positiva del brand. Invece, sono passati al contrattacco, accusando che faceva domande scomode di essere dei troll:

SeaWorld5[Dirottare gli hashtag è una cosa così da 2014 – #AttenzioneAiTroll – Foto: Mashable]

 SeaWorld6

[Stiamo cercando di rispondere alle vostre domande, ma abbiamo qualche migliaio di troll e di bot da gestire. #askseaworld #scuotendolatesta – Foto: Mashable.]

Diciamo che questa non è stata proprio una gran risposta da parte del social media manager di SeaWorld, che ha praticamente ammesso di rifiutare ogni critica degradando al rango di troll o bot tutti coloro che, anche sarcasticamente, esprimevano una ciò che pensavano del brand. Non solo SeaWorld non sarebbe stato nella posizione di mettersi a “fare battutine” ma, cosa ben più grave, non ha riconosciuto che gli utenti non stavano “facendo i troll”: stavano semplicemente restituendo a SeaWorld l’immagine socialmente condivisa che questi avevano del parco.

Lesson Learned: Se chiedi al Web cosa pensa di te, e gli utenti ti rispondono in un modo che a te non piace, non puoi accusarli di “prenderti in giro”: pensa piuttosto a come gestire la tua reputazione, in modo che questa non si trasformi in un boomerang per il tuo brand.

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