Insegnare ad imparare

Giorni fa discutevo con alcuni colleghi di un problema che sta divenendo sempre più critico. Dicevo:

“Spesso insegnamo ai nostri studenti tecnologie, metodi e modelli che evolvono di anno in anno. E loro devono poi affrontare una vita professionale di oltre 40 anni. Dobbiamo cambiare il nostro modo di insegnare.”

È un problema complesso e grave, che richiede cambiamenti in tanti aspetti del processo formativo e di sviluppo della personalità di un giovane. Eppure spesso viene banalizzato e sottovalutato. Alcuni dicono che l’università non serve, che basta “l’esperienza” e un banalizzato e svilito “saper fare”, dimenticando così l’importanza dell’apprendimento di concetti e principi di base complessi e per nulla scontati o superati. Altri si rifugiano nei MOOC, nelle tecnologie, nell’apprendimento via rete. In generale, ho sempre più l’impressione che sia in atto un progressivo svilimento del processo di studio e apprendimento e, conseguentemente delle stesse università (e della scuola) come luogo primario di formazione.

In realtà, credo che mai come oggi servano università (e scuole) di qualità, in grado da un lato di contrastare banalizzazioni e semplificazioni che caratterizzano tantissimi ambiti della nostra vita quotidiana e, dall’altro, di proporre in positivo programmi e percorsi che raccolgano le sfide della modernità, dando risposte credibili e praticabili ai nostri giovani e alla società in generale.

Più precisamente, quali sono queste sfide e come affrontarle?

L’impatto sui docenti e l’università

Lo snodo per capire l’evoluzione richiesta ai processi educativi risiede, a mio parere, in due semplici concetti.

  • Insegnare ad imparare. Se è vero come è vero che le persone hanno percorsi professionali sempre più lunghi a fronte di evoluzioni tecnologiche sempre più veloci, allora diviene essenziale insegnare ad imparare, cioè trasmettere e condividere spirito critico, concetti di base, contenuti fondanti, modelli interpretativi, metodi di studio, analisi e lavoro che definiscano il profilo professionale (e umano) di una persona matura. Dobbiamo sviluppare nei giovani una attitudine e una capacità di operare come “spugne”, capaci cioè di assorbire e fare propri in modo critico e consapevole le informazioni e i cambiamenti scientifici e culturali ai quali assistono e sempre più assisteranno nel futuro.
  • Più formazione e meno informazioni. Un altro modo di dirlo (o di raffinare il concetto) è che dobbiamo passare dal “fornire informazioni” a “formare capacità critiche, analitiche e progettuali”. Per esempio, in informatica, è molto più importante comprendere i concetti di ricorsione, di complessità di un algoritmo o di “black box” piuttosto che studiare l’ultimo grido in fatto di linguaggi di programmazione per la rete (ce ne sono tanti e tanti ne nasceranno in futuro).

In altre parole, mi pare sia molto più importante studiare e capire i concetti fondanti e abilitanti, piuttosto che assimilare informazioni sull’ultimo sviluppo tecnologico. È meglio cioè “concentrarsi sull’essence piuttosto che sugliaccidents.”

Quest’attitudine si scontra troppe volte con le richieste e preferenze sia dei giovani che delle imprese che li dovranno poi assumere.

L’impatto sugli studenti

Sfortunatamente, ho il timore che molti studenti abbiano sviluppato, anche per colpa di una scuola che ha subito una deriva in questo senso, una forte inclinazione allo studio come passaggio per “imparare le risposte giuste”, la sindrome del “quiz” o peggio di una svalutata “manualità”. Lo vedo nei miei corsi dove, rispetto alla capacità di ragionamento e all’argomentazione, spesso percepisco una attenzione alla sintassi, alla correttezza formale, al “qual è la risposta giusta da dare alle domande che ci faranno all’esame”. Ovviamente, è essenziale e assolutamente necessario studiare le nozioni di una specifica disciplina e evitare l’ignoranza abissale che spesso ci perseguita. Ma tutto ciò deve essere strumentale e funzionale allo sviluppo di un metodo di apprendimento intelligente e argomentato, e alla costruzione di una capacità critica, progettuale e analitica che vada ben oltre la sindrome del “quiz per la patente” che troppo spesso pervade le nostre classi.

L’impatto sulle imprese e i datori di lavoro in generale

Oggi spesso in azienda la formazione e la valutazione del personale sono orientate all’acquisizione di know-how pratico invece che allo sviluppo di una cultura dell’apprendimento critico e continuo. Troppo spesso ci si limita al finanziamento di “corsi di aggiornamento” per specifici prodotti o tecnologie, senza riuscire a incidere sul vero problema: sviluppare la capacità di autoapprendimento e di elaborazione critica di ciò che fanno nel corso di tutte le loro attività quotidiane.

Credo che un passaggio essenziale sia il cambiamento, profondo dei criteri di funzionamento, delle policies, dei modelli formativi e dei criteri di valutazione di tanti uffici del personale.

L’impatto sulla politica

Infine, ovviamente anche la politica ha un ruolo essenziale da giocare. A tanti livelli:

  1. Programmi scolastici.
  2. Programmi di formazione degli insegnanti e, in generale, del personale delle amministrazioni pubbliche.
  3. Modelli di valutazione di tutto il personale pubblico.
  4. Finanziamenti e incentivi in tema di formazione e ricerca.

Il pubblico dovrebbe dare il buon esempio e dimostrare di credere in un processo educativo più moderno e al passo con le sfide che dobbiamo affrontare. 

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