Il valore degli Open Data: promessa non mantenuta?

A fine 2015, in occasione del rilascio dell’ultima versione del portale europeo degli Open Data è stato pubblicato, su commissione UE, uno studio della società di consulenza francese Capgemini che ha per oggetto proprio la creazione di valore a partire dagli Open Data. Dei risultati dello studio viene spesso ricordato il volume di affari stimato nel quadriennio 2016-2020 che si attesta sulla sonora cifra di 325 miliardi di euro.

A fronte di questi numeri c’è, come sostiene lo studio stesso, una carenza di analisi a posteriori sul riuso effettivo dei dati e, almeno per gli osservatori della realtà italiana ed europea, balza agli occhi una certa sproporzione tra le stima e la scarsità di impieghi noti e monetizzabili degli Open Data.

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L’immagine, tratta dal portale europeo degli Open Data, mostra in modo efficace i vantaggi della pubblicazione di Open Data sotto vari aspetti: dal più ovvio e diffuso incremento della trasparenza e partecipazione, al miglioramento delle prestazioni della pubblica amministrazione, che strutturandosi per il rilascio dei dati, ne migliora la qualità e può più facilmente condividerli al proprio interno.

Nel segmento centrale la tanto attesa crescita economica deriva da servizi innovativi e nuovi modelli di business generati dai dati aperti. La stima del valore macro-economico degli Open Data non è cosa nuova, è stata attestata da diversi studi nel corso dell’ultimo decennio, a partire dal celebre rapporto Vickery del 2011, e tutti concordano, pur con variazioni di metodo e modelli adottati, nel far risalire, nell’ambito geografico individuato,  una certa quota del prodotto interno lordo o GDP, agli Open Data.

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Immagine tratta da “The economic impact of Open Data – what do we already know?” The Open Data Institute

Il report Capgemini riconsidera ed attualizza le stime adottando un suo modello di analisi macroeconomica che valuta distintamente i benefici diretti, ovvero quelli derivanti da transazioni di mercato, ed i benefici indiretti portati, ad esempio, dalla creazione di nuovi posti di lavoro o da maggiore efficienza nella pubblica amministrazione. La cifra di 325 miliardi di euro tiene conto solo dei benefici diretti stimando una quota di PIL che dallo 0,37% del 2016 arriva allo 0,49% del 2020 con un incremento del 39%.

Il ciclo economico di creazione diretta di valore mediante l’impiego di Open Data è piuttosto semplice: le Pubbliche Amministrazioni rilasciano i dati a titolo gratuito o comunque a costo contenuto, tutto ciò che viene realizzato dalla vendita di servizi e applicazioni che impiegano i dati è valore.

Più complessi da calcolare e rappresentare sono i benefici indiretti, che pure sono oggetto di studi micro-economici attuati soprattutto nei settori e nelle aree geografiche dove i dati sono stati effettivamente messi a disposizione. I benefici indiretti superano di gran lunga quelli diretti ed un merito del rapporto di Capgemini è quello di indurre a riflettere, assegnando anche dei corrispettivi economici o comunque e numerici,  sui risparmi ottenuti dalle Pubbliche Amministrazioni (1.7 miliardi di euro di soldi pubblici), sui posti di lavoro creati (25.000 nei prossimi 4 anni) e soprattutto sul valore sociale dell’impiego di Open Data: si salvano tempo e vite umane (7.000 vite salvate).

Per quanto riguarda il riuso diretto dei dati aperti da parte di aziende, è forse corretto considerare che i dati del settore pubblico sono solo una delle fonti possibili per analisi sui dati: solitamente i servizi innovativi vengono realizzati combinando dati di diversa origine. Inoltre quella dell’Open Data è una pratica che si estende ad enti di ricerca, associazioni o alle stesse realtà corporate. Non solo si può fare business con applicazioni e servizi sui dati o su analisi applicate ai dati, aperti e non, del settore pubblico o privato; esistono consolidati business model per soggetti anche privati che, in qualità di detentori di dati, decidono di aprirli a titolo totalmente gratuito, o per una porzione, modello freemium, oppure adottano un modello “a rete” di creazione dell’informazione (modello “Open Street Map”).

Ma quali sono le società specializzate nel riuso dei dati e quante sono?

In Italia si è in attesa della prima indagine sulle aziende che usano dati aperti del settore pubblico, risultato del progetto Open Data 200 Italy, guidato da Francesca De Chiara e tra le iniziative presentate all’Open Data Institute Summit 2015. Sono invece  già noti i risultati di un’ indagine analoga condotta negli UK su un campione di 270 aziende che investono (anche) in Open Data, di varie dimensioni e settore merceologico, circa la metà non appartenenti al settore ICT,  per il 70% composte da piccolissime aziende , mentre per circa il 40% si tratta di aziende con più di 10 anni di attività, quindi non solo start-up.

Tuttavia è innegabile, e la stessa esistenza di iniziative a sostegno e riprova del riuso lo dimostra, che l’impatto economico non ha corrisposto alle aspettative, forse troppo elevate o che si speravano realizzate in tempi troppo brevi. Rufus Pollok, il fondatore della OKFN Foundation, sostiene che l’Open Data è in grado di fare poco perché è come un bambino che muove i primi passi; nello stesso Regno Unito, nonostante la maturità e qualità dell’iniziativa, la mole degli investimenti e il coinvolgimento e attenzione alta e costante nel tempo, solo recentemente si sarebbero pubblicati dati di alta riutilizzabilità come i dati ambientali e del settore sanitario.

D’altra parte negli Stati Uniti, dove il Freedom of Information Act è legge dal 1966, la condivisione dei dati sanitari e dei dati dei centri di ricerca sulla salute umana è argomento politico di massima attenzione, su cui si esprime con convinzione e cognizione di causa lo stesso Obama. L’ex Chief Technology Officer della Casa Bianca, Todd Park, anima un evento per gli Open Data sanitari come lo Health Datapalooza, che raccoglie le maggiori corporate americane ICT e sanitarie, i data scientist, le lobby. L’attuale Chief Technology Officer, Megan Smith ha dal canto suo inaugurato il 7 marzo 2016 The Opportunity Project, iniziativa fondata sui dati aperti e rivolta a comunità e famiglie per mettere a disposizione informazioni circa risorse considerate vitali come l’accesso al lavoro, case a prezzi sostenibili, scuole, servizi.

I benefici dell’apertura dei dati possono essere i più vari, come molto vari sono i risultati ottenuti in contesti diversi. Solo il tempo potrà attestarne il valore complessivo, ma di sicuro le esperienze nel mondo Open Data sono così variegate, trasversali a più settori e ricche di risvolti non solo strettamente economici che meritano di essere raccontate diffusamente, come proveremo a fare nei prossimi articoli sull’argomento.

(Foto di Jan Ainali, CC0)

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