Alfabeto Open: P come Pirateria (del software)

“Nel covo dei pirati c’è poco da scherzare
chi non si arruola finisce in fondo al mare…”

Edoardo Bennato

Da pochissimi giorni BSA (The Business Software Alliance, l’alleanza mondiale dei produttori di software) ha diffuso in tutto il mondo i dati della “Global Software Survey”.

La notizia che rimbalza un po’ su tutti i canali web mette in evidenza, con una certa soddisfazione, che sia calata di due punti la percentuale di software illegale (ovvero piratato, cracckato, insomma privo di regolare licenza d’uso) installato sui computer in Italia. Tale percentuale sembra quindi scesa dal 47 al 45% (rispetto alla precedente edizione della stessa ricerca condotta nel 2013). Sinceramente, non ci trovo molto da festeggiare.

In primo luogo, perché quel 45% va paragonato con il 28%, che è il tasso d’illegalità rilevato dai ricercatori di IDC nel resto dell’Europa Occidentale (quindi in Italia saremmo ad un livello quasi doppio). Commenta giustamente Paolo Valcher, presidente del Comitato italiano di BSA: “Per una nazione evoluta e moderna quale l’Italia un tasso di illegalità del 45% è un dato inaccettabile”.

In secondo luogo perché nel report vengono portati alla luce altri dati a dir poco preoccupanti.

È stima dei CIO (i responsabili dei sistemi informativi aziendali), si legge, che circa il 15% dei dipendenti carichino software pirata sulle reti aziendali al di fuori del loro controllo mentre, contestualmente, il 26% dei medesimi impiegati ammetterebbe di praticare comportamenti illegali col PC aziendale. La stessa presidente e CEO di BSA, Victoria Espinel, ammette infatti che «molti CIO spesso ignorano la reale composizione del parco software installato, come anche la sua legalità o meno».

Aggiungiamo inoltre che lo stesso report di BSA evidenzi un tasso di software illegale elevato persino in settori imprevedibili come quello bancario, assicurativo e finanziario (25%).

No dico, ma ci rendiamo conto?

Dovrebbe essere chiaro a tutti (CIO in primis) che un software illegale sia un software insicuro, che presenti quindi maggiori rischi in termini di cyber security e che esista uno stretto collegamento fra l’impiego di software “pirata” e l’esposizione a rischi di cyber intrusioni.

A livello mondiale, nel 2015 sono state rilevate più di 1 milione di nuove cyber-minacce e il ransomware, cioè l’attacco che blocca i computer in cambio di un riscatto  (come il famigerato virus CryptoLocker), è cresciuto del 35%.

Si può arginare la pirateria del software?

Assolutamente sì.

Ma se lo si facesse, le aziende produttrici di software proprietario perderebbero un sacco di utenti. Non paganti, certo, ma preziosissimi nel diffonderne i propri prodotti.

Jeff Raikes, un dirigente della Microsoft, nel 2007 dichiarò non a caso, infatti, che l’azienda preferisse che ad essere piratato fosse il loro software, piuttosto che quello della concorrenza.

L’approccio delle case produttrici di software al problema della pirateria, infatti, risulta spesso alquanto ambiguo.

Ma in questo caso la strategia può essere davvero semplice da capire: non è importante che paghino tutti gli utenti, è importante che tutti utilizzino il proprio software. Così, mentre una grossa fetta di utenti paganti assicura la remuneratività del business, ciò che importa è la diffusione, ovvero diventare “standard” nella convinzione (spesso illusione) che non si possa fare a meno del proprio software.

Scommettiamo che se tutti quelli che vogliono usare Office dovessero per forza sborsare il denaro che costa la licenza legale d’uso (cioè senza scorciatoie illegali), ecco che magicamente molti di loro smetterebbero di farlo e passerebbero ad esempio a Libreoffice?

Queste non sono considerazioni soggettive di “morale” o di “costume”.

Infatti quando i CIO fanno i conti seriamente con tutte queste variabili come sicurezza, costo totale di possesso, legalità, attenzione all’utente finale nascono con successo le migrazioni. Anche controcorrente, se serve.

Leggiamo sul sito di Autodesk:

“Molti casi di pirateria hanno origine da una errata convinzione: quella che acquistando la licenza di un determinato software si acquisti la proprietà e la piena disponibilità del bene. In realtà la licenza è un contratto che conferisce all’acquirente il diritto di utilizzare il software nel rispetto di determinate condizioni, che sono appunto quelle specificate in questo documento.”

È corretto. La differenza tra legale ed illegale è proprio qui: è il rispetto (o il non rispetto) di questo contratto chiamato licenza d’uso.

Spesso infatti si parla anche di un fenomeno chiamato Underlicensing, ovvero l’utilizzo di un numero di copie maggiore di quello per cui si possiede regolare licenza d’uso (e si tratta della forma di pirateria più diffusa nelle aziende, negli enti e negli studi professionali).

C’è quindi un modo per uscirne? La risposta è sì.

C’è un modo per usare software legale ed allo stesso tempo sicuro: basta aprire la testa, mettere in discussione le abitudini, fare bene i conti (CIO in primis) e alla fine… per definizione scegliere software libero, poi se serve veramente, si valutano le eccezioni.

Il software proprietario prevede una licenza che tipicamente nega il permesso di copiare, distribuire, studiare o modificare in alcun modo il software, citando espressamente il divieto.

Invece il software libero espressamente lo consente, fornendo addirittura anche il codice sorgente del software in questione. È proprio per questo che la licenza che accompagna un software open source viene definita Copyleft : è un termine che assomiglia in tutto e per tutto a Copyright ma concede, anziché negare.

La qualità, la sicurezza, l’affidabilità del software libero non sono più da mettere in discussione. Troppi ormai sono gli esempi di successo in questi anni, che hanno dato ampia dimostrazione sia del livello raggiunto dai software, sia dell’eccellente sostenibilità del modello di business. Una vera alternativa al modello precedente, che infatti non a caso sta letteralmente rivoluzionando l’intero pianeta.

Ma per favore non mi parlate più di abitudini ad usare quella sola unica interfaccia, all’icona o alla voce del menù delle funzioni, senza la quale l’utente non può far altro che strapparsi i capelli: a casa siamo tutti bravissimi a passare da un PC ad un tablet o ad uno smarthone, tutti con ambienti operativi diversi tra loro, salvo poi al lavoro (o anche a scuola) tornare a voler essere i più pigri ed intolleranti abitudinari del mondo.

Non mi stancherò mai di dirlo: per ogni software proprietario c’è sempre un’alternativa libera, basta averne la consapevolezza. Visto che è libero, visto che è legale, visto che è sicuro e che funziona parimenti: provate!

E questo vale soprattutto per i nostri figli e le scuole che frequentano.

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