Il punto su Smart City di Salvatore Marras

Citta intelligenti, o Smart City, ovvero una cosa di cui si parla molto ma probabilmente ancora poco si riesce a descrivere come best practice a livello locale. Il progetto di ricerca Smart Cities: quali impatti sulle città del futuro?, realizzata da Digital Transformation Institute con il supporto di CISCO, intende indagare il fenomeno attraverso un approccio di analisi differente, che individua gli ostacoli che il contesto frappone allo sviluppo di un processo di Smart City che ha avuto successo in altre realtà.

Smart City ed aree urbane – afferma Stefania Farsagli, responsabile dell’area Ricerca DTI – sono un connubio che ha sempre più il sapore di una sfida, la scommessa di creare luoghi e città dove si ampliano le aree di innovazione sociale, dove competitività e resilienza migliorano attrattività e qualità della vita dei cittadini. Le esperienze positive non mancano, né mancano gli studi sui fattori di successo, eppure le analisi che tentano di rendere questi processi scalabili e replicabili in altri contesti non sembrano particolarmente efficaci. Per questa ragione il progetto di ricerca intende evidenziare i motivi ostativi alla replicabilità di buone pratiche, anche attraverso il coinvolgimento di esperti“. Tra questi Salvatore Marras, Knowledge Manager presso Formez PA e cordinatore dei portali LineaAmica.gov.it e dati.gov.it, che ci aiuta a comprendere meglio il “fenomeno smart city” nel nostro Paese.

Quali gli elementi che hanno contribuito ad ostacolare lo sviluppo di Smart City?

Salvatore Marras
Salvatore Marras

Come Formez, sul tema delle Smart City, non abbiamo discusso molto ma la prima cosa che mi viene in mente è che rispetto a questa parola, che negli ultimi anni è stata molto in voga, ci sono due modi di interpretarla: con la logica di grandi progetti e iniziative che riguardavano la “digitalizzazione” delle aree urbane con una logica dall’alto verso il basso e con il ridimensionamento dei progetti in una logica dal basso verso l’alto, incentrati sulla partecipazione e la condivisione degli spazi urbani.

In realtà questi due mondi sembra che siano stati messi in competizione tra loro. Quindi, anziché cercare delle forme di coesistenza, sono diventati uno l’alternativo dell’altro. Ci sono però delle città, come ad esempio Manchester, dove hanno trovato la chiave giusta per legare le due cose, ricorrendo a opportunità e infrastrutture tecnologiche e seguendo le esigenze dei cittadini. La prima cosa che è mancata in Italia è questa. Come al solito nessuno si è preoccupato di considerare quanto una cosa fosse richiesta o utile ai cittadini.

È mancato un indirizzo normativo?

Secondo me no. In Italia abbiamo anche troppe norme. È un problema di capacità manageriale pubblica o di visione politica. In alcuni casi, come ad esempio nella città di Lecce, abbiamo molte iniziative che partono dal basso ma, allo stesso tempo, ci sono anche molti investimenti da parte del Comune. Detto questo, in Italia non c’è un caso che può fare da riferimento per altri.

La dimensione tecnologica è importante?

La tecnologia è un elemento essenziale, nel senso che è abilitante. Io penso che un modello di riferimento importante sia quello dell’Open Government Partnership che ha sostituito la parola cooperazione con accountability e credo che questo sia il vero punto di partenza. Se il Comune di Roma (così come tutti i Comuni) desse conto di tutto quello che fa, coinvolgendo i cittadini anche nelle decisioni rilevanti, già quello sarebbe un modo di fare Smart City. Invece tutto viene fatto senza coinvolgimento, oppure vengono fatte attività di partecipazione a solo scopo propagandistico. Un esempio classico: la Riforma della Costituzione, la più grande iniziativa di partecipazione pubblica che però alla fine non ha preso in considerazione ciò che i cittadini avevano proposto e commentato. Questo perché c’era un’ipotesi di Riforma già scritta e quindi la grande partecipazione dei cittadini è stata totalmente ignorata. Importante, ma inutile.

Quale l’elemento che porta al fallimento?

Per le Smart City è mancato un modello d’intervento che riuscisse a mettere insieme il tutto: se ho delle risorse, ma non coinvolgo i cittadini, potrò avere un miglioramento dal punto di vista dell’efficienza, ma non è detto che il cittadino lo percepisca, perché magari non è inerente alle sue esigenze prioritarie. La cosa difficile è proprio unire questi due elementi.

Mancano poi le competenze, le risorse umane necessarie. L’Italia negli indicatori della Commissione Europea è tra gli ultimi Paesi quasi in tutto. Uno degli elementi sui quali siamo indietro è proprio quello delle competenze digitali. In questo contesto la PA ha una doppia responsabilità: rinnovare il patrimonio di conoscenza interno e dare indirizzi affinché certe competenze ci siano. Anche nella scuola, purtroppo, mancano docenti capaci di trasmettere queste conoscenze. Tanto per fare un esempio: inutile pensare diffondere il coding nelle scuole se non c’è nessuno in grado di farlo.

Rispetto alle competenze digitali, cos’è che ostacola il loro sviluppo?

Far crescere le competenze, soprattutto all’interno delle organizzazioni pubbliche, è un processo molto lento. Si fa poca formazione e non si canalizza verso l’innovazione visto che quasi sempre la si focalizza su adempimenti normativi. La formazione che viene fatta nella PA è destinata prioritariamente a risolvere problemi nel breve periodo.

Le risorse sono sempre più scarse e numerosi sono i tagli in innovazione. L’epoca del Ministro Stanca ha visto grandi investimenti sull’eGov e sicuramente quella è stata un’occasione persa; se fossero stati fatti degli investimenti pensando anche al futuro oggi, forse, avremmo potuto raccoglierne i frutti. Credo che oggi il fatto di esserci concentrati su poche azioni (anagrafe unica, identità digitale…) sia da un lato positivo, ma dall’altro è il segno che più di questo non siamo capaci di fare. È come se limitassimo il nostro obiettivo su azioni prioritarie, perché se portassimo avanti un disegno più organico non ce la faremmo.

Dov’è che questo meccanismo si può scardinare?

Non voglio dare una visione pessimistica, ma servirebbe un lavoro su più fronti: scuola, sanità, ambiente, PA e non solo per quanto concerne la cultura digitale. Non dimentichiamo che dal punto di vista dell’alfabetizzazione culturale siamo uno dei Paesi più indietro: quello dove si usano meno le carte di credito tanto per dirne una. Sono tante cose messe insieme che marcano la nostra difficoltà a “staccarci” dall’analogico.

Open Data: a che punto siamo?

I dati che hanno un valore le Amministrazioni tendono a non pubblicarli: per un Comune mettere online tutti i dati di bilancio, in totale trasparenza, è una sfida. Il dare conto espone e politicamente non paga, per cui nessuno tende a farlo. Nonostante questo sia l’unico passaggio reale per avere dati di qualità aperti. Prendiamo ad esempio OpenCantieri: abbiamo chiesto di avere un cruscotto decisionale, ossia avente informazioni sull’andamento che però non erano disponibili. Il vero lavoro è stato ricercare i diversi dati che erano in posti diversi e trattate in modo differente.

Il Ministero dei Trasporti ogni anno pubblica il Rapporto sulle Infrastrutture del Paese e i dati li recuperano un po’ da fonti statistiche ufficiali, un po’ da altri soggetti per averli in forma tabellare. Il punto è che non hanno stabilito un flusso continuo di trasferimento dati da chi produce a chi dovrebbe decidere, flusso indispensabile per far diventare i dati Open Data.

Non basta parlare di Open Data, bisogna cominciare a “dare conto”, accountability. I dati aperti rappresentano una forma di garanzia, ma devono essere di qualità e, alla fine, sono i dati di qualità quelli che “danno conto”.

Facebook Comments

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here