Houston abbiamo una storia

Ho preso in prestito il titolo di questo articolo dall’omonimo libro di Randy Olson, un libro molto discusso, perché definisce la scienza come un processo narrativo che, in quanto tale, deve essere raccontata attraverso le storie.

Da una parte questa è un’affermazione logica e perfettamente al passo con i tempi. I cambiamenti tecnologici dei siti di social network – oggi veri e propri strumenti di storytelling – e il proliferare di applicazioni per condividere i momenti importanti della nostra storia personale hanno generato milioni di racconti, tanto che la narrazione è diventata ormai il formato preferenziale in ogni tipo di trasmissione di informazioni.

Le aziende abbandonano le tradizionali presentazioni per raccontarsi, i blogger riscoprono la scrittura diaristica, la medicina si fa narrativa, e i giornalisti non scrivono più notizie, ma narrano eventi. Gli strumenti di content curation si sono trasformati in strumenti per raccontare storie che non richiedono quasi più il nostro intervento, ma lasciano la costruzione del racconto agli automatismi del software accogliendo l’invito di Storify: “fai che il web scriva la storia”.

Ma quando si parla di comunicazione scientifica, e soprattutto di comunicazione della ricerca, non possiamo affidarci completamente al tradizionale processo narrativo. In parte perché la bontà di una storia scientifica va misurata sulla bontà dei dati di ricerca e non sulla sua trama, e in parte perché il suo scopo non è quello di intrattenere, ma quello di migliorare la comprensione di concetti scientifici complessi e di stimolare domande.

Tuttavia, vi sono ormai moltissimi esempi di storytelling “scientifico” che si sono rivelati particolarmente efficaci per comunicare questioni complesse, per attirare l’attenzione del pubblico su grandi temi scientifici o per aumentare la comprensione dell’incertezza scientifica e del rischio.

Tutti questi esempi hanno un comune denominatore:

  • il racconto di ciò che accade dietro le quinte della ricerca. Si narrano la passione dei ricercatori, le loro aspettative, le loro paure, per umanizzare la scienza e coinvolgere maggiormente le persone stimolandone l’empatia;
  • una intensa attività di coinvolgimento del pubblico che viene invitato a partecipare a contest e a collaborare attivamente nei progetti di citizen science;
  • l’utilizzo integrato di diversi siti di social network (Facebook, Twitter, YouTube, Tumblr, Blog, Instagram, Snapchat). Twitter e YouTube in particolare, sono quasi sempre i canali dove si concentrano maggiormente gli sforzi di comunicazione. Twitter serve allo scopo di trasmettere le notizie in tempo reale e rispondere alle domande attraverso le twitterchat; i video pubblicati su YouTube forniscono il quadro generale, aiutando a contestualizzare le informazioni frammentate ricevute attraverso gli altri media.
  • la disseminazione di micro-contenuti in formati diversi attraverso una serie di strumenti di storytelling che permettono di aggregarli in forma interattiva.

Forse è tempo di ricredersi sullo storytelling, per troppo tempo denigrato dall’accademia, e iniziare a considerarlo non più come un veicolo di rischio di banalizzazione e strumentalizzazione dei contenuti, ma come uno strumento di implementazione della tradizionale comunicazione scientifica.

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