Il futuro dell’educazione

Qualche giorno fa si è tenuto al Cefriel un workshop con alcuni responsabili Human Resource di grandi aziende italiane. Tema del workshop era riflettere sui problemi dello sviluppo delle persone e, in generale, dell’educazione, al fine di ripensare i modelli formativi e i relativi contenuti. Sono emersi alcuni temi interessanti che provo a sintetizzare in queste note.

Il problema del Paese: l’educazione

Ho aperto i lavori disegnando sulla lavagna il semplice diagramma che trovate qui di seguito:

Dalle scuole superiori alla pensione: il percorso dei giovani che si affacciano sul mondo del lavoro.

Questo semplice schema illustra il percorso di un giovane che dopo la scuola superiore intraprende studi universitari per poi entrare nel mondo del lavoro. In funzione del livello al quale si ferma, un giovane entra nel mondo del lavoro tra i 19 o 22–24 anni e i 26–28. La finestra dipende da quali percorsi di studio decide di perseguire e dalla sua regolarità rispetto ai tempi canonici previsti dagli singoli corsi.

Nota: non mi pare che il problema sia ridurre il liceo da 5 a 4 anni. Come si vede, la questione ha altre caratteristiche.

L’aspetto critico è la lunghezza del periodo che segue: ipotizzando che l’età della pensione si collochi tra i 67 e i 70 anni, ci troviamo di fronte a circa 40 anni di attività lavorativa.

Cosa vuol dire, oggi, nel 2017, preparare una persona per 40 anni di attività professionale? Cosa ha senso impari oggi, in università, e quali percorsi educativi deve poi seguire nel corso degli anni? Con quali strumenti e formati? Con quali modelli di valutazione e accompagnamento (coaching/mentorship)?

Nel corso del workshop sono state elaborate alcune idee, che se certamente non sono immediatamente traducibili in azioni concrete, possono però contribuire ad approfondire la riflessione su un tema vitale per i nostri giovani, per le nostre imprese e per il Paese in generale.

Il tema di fondo è quello della strategia complessiva secondo la quale gestire la crescita professionale delle persone. In particolare, è ovvio che dobbiamo passare da una formazione concentrata all’inizio della vita della persona e definita in modo top-down, ad una molto più distribuita e continua che valorizzi anche le preferenze e le scelte autonome dei singoli (bottom-up).

Questo tema è ripreso con efficacia da un post pubblicato proprio in questi giorni sul sito del World Economic Forum.

Molto esplicativo e netto in particolare questo passaggio:

The idea of a one-time education providing people with a lifelong skillset is a relic of the past.

As today’s economies become ever more knowledge-based, technology-driven and globalized, and because we simply don’t know what the jobs of tomorrow will look like, there is a growing recognition that we have to prepare the next generation with future-ready skills and with the capacity for continued lifelong learning.

However, it is imperative that we invest in re-skilling and up-skilling the three billion people around the world who are already part of the world’s workforce and who have already completed formal schooling. For this, public-private collaboration is critical.

Due i punti mi pare emergano:

  1. Si studia e ci si forma per tutta la vita.
  2. È vitale che negli “anni classici di studio” (i primi 25) ci si assicuri che le persone abbiano “imparato ad imparare”.

“Imparare ad imparare”

Il tema “dell’imparare a imparare” rimanda ad una questione centrale nel rapporto tra imprese e università. Sempre più spesso si dice che i nostri giovani non siano pronti ad entrare nel mondo del lavoro. Ci si lamenta che non conoscano nulla delle dinamiche del lavoro e del funzionamento di una impresa. Le imprese chiedono che le scuole e le università “producano” persone che siano immediatamente operative nel mondo del lavoro così da “risparmiare” tempo e costi di formazione al lavoro.

È un approccio comprensibile, ma miope e di corto respiro. Può essere utile per risparmiare qualcosa nei primi anni, ma siamo sicuri che poi nel tempo questo approccio non si ritorca contro le persone e le imprese stesse? Se la formazione è tutta orientata a creare persone immediatamente operative, non esiste il rischio che queste non abbiano costruito quella capacità di imparare continuamente? Non è poco lungimirante puntare a “risparmiare” nella fase di inserimento, correndo il rischio di “spendere di più” nel corso della vita professionale delle persone? È questo il modo per sostenere lo sviluppo del proprio “capitale umano”? Quante altre volte nella sua vita una persona trascorrerà alcuni anni in una scuola o università? Come è possibile che si sprechi questa opportunità unica della vita? Cosa ha senso che la persona faccia in quegli anni che non avrà più occasione di rivivere in seguito?

Le aziende devono mettere da parte l’illusione che tutto si riduca a limitare costi e tempi all’inizio del percorso di carriera; nè che si possa semplicemente procedere alla sostituzione del personale esistente con neoassunti che “costano meno” e sono già “pronti all’uso”.

Credo dobbiamo riscoprire (ovviamente rileggendola alla luce dei tempi che viviamo) la tanto bistrattata formazione di base che però era in grado di formare persone con solidi fondamentali e quindi in grado di adattarsi più velocemente ai rapidi cambiamenti di cui oggi siamo tutti testimoni. Alla formazione di base deve affiancarsi una strategia educativa che accompagni, sostenga e animi tutte le fasi della vita professionale di una persona.

Ancora dall’articolo citato in precedenza:

Business must re-think its role as a consumer of “ready-made” human capital.

A number of leading global companies understand this imperative and are already investing in the continuous learning, re-skilling and up-skilling of their employees; but too many companies are still looking at people as a cost to be minimized.

In the short term, this might seem efficient or might pay off for specific companies, but in the long term, it will reduce innovation and reduce social cohesion.

Companies must begin to think of re-skilling and up-skilling their workforces as an investment and a social responsibility.

Deepening the conversation between educators and businesses will be key to ensuring that training across educational institutions provides the skills economies need, the talent needs of businesses, and constitutes a worthwhile investment for individuals themselves.

Serve una profonda riflessione che guidi un radicale ripensamento di tante “politiche del personale” che non colgono le vere sfide che le aziende moderne si trovano ad affrontare.

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