Sulle università italiane

Nei giorni scorsi il giornalista Stefano Feltri (su Twitter è @stefanofeltri) ha pubblicato tre articoli sul tema del valore della laurea per gli studenti italiani nel contesto del nostro mercato del lavoro. Gli articoli hanno suscitato molte polemiche con reazioni anche molto stizzite. Taluni hanno subito sostenuto e condiviso le tesi di Feltri mentre molti altri le hanno invece censurate senza riserve. Ma quali sono gli argomenti del contendere e come quindi valutare nel merito la rilevanza e significatività di queste affermazioni?

Due temi

In realtà, Feltri soprattutto nel terzo dei suoi articoli, sovrappone due temi:

  1. Molti studenti italiani seguono solo i loro interessi senza considerare la reale spendibilità sul mercato del lavoro del titolo che acquisiscono nel loro percorso di studi. In particolare, snobbano le discipline tecnico-scientifiche preferendo quelle umanistico-letterarie.
  2. “Il sistema universitario italiano fa un po’ schifo”. Tale affermazione si basa sul confronto tra i risultati del test PISA degli studenti alle superiori e quelli degli adulti: “non si vedono grandi miglioramenti”. Feltri rafforza il concetto dicendo che “è chiaro che studiamo le cose sbagliate e, per aggravare la situazione, le studiamo anche male.”

Provo a discutere dei due temi separatamente e poi a farne una sintesi.

Le “lauree deboli”

Da tempo in Italia si parla del problema delle “lauree deboli” cioè quei corsi di studio che non garantiscono un accesso facile al mercato del lavoro. Non per niente negli anni scorsi sono stati anche finanziati percorsi formativi per rendere più facilmente spendibili queste competenze nel mercato del lavoro. Al tempo stesso, mancano competenze in diversi settori (come l’ingegneria). È una situazione che, peraltro, rispecchia un problema di molti paesi occidentali: in USA ci sono gap simili e anche a livello europeo, per fare un esempio, esistono programmi che studiano le carenze di professionisti negli e-Skills e nella e-Leadership (cioè competenze relative alle tecnologie digitali).

Per questo motivo, su questo tema mi sento vicino alle tesi di Feltri. C’è uno sbilanciamento tra scelte degli studenti, richieste del mercato del lavoro e salari conseguenti. Mi pare che la situazione sia ben riassunta da questo diagramma di Alma Laurea:

la scienza paga

Le affermazioni di Feltri sono state oggetto di aspri commenti, soprattutto perché sono state interpretate come una critica a studenti che si concentrerebbero su materie inutili. In realtà, il problema esiste e, senza in alcun modo voler violare la libertà di scelta delle persone, è necessario esserne consapevoli, quanto meno per declinare il proprio percorso di studi in modo da valorizzare al meglio nell’odierno mercato del lavoro le competenze acquisite nel corso degli studi universitari. Per esempio, è indubbio che lo sviluppo dei servizi digitali possa e debba beneficiare del contributo di esperti in discipline umanistiche. Ma non basta semplicemente rivendicare l’importanza delle materie umanistiche: è necessario fare in modo che queste competenze siano spendibili nei diversi contesti dove le persone si troveranno a lavorare. In generale, si deve operare per eliminare o ridurre il mismatch tra offerta e domanda, altrimenti è evidente che sarà sempre difficile per molti giovani trovare un adeguato sbocco lavorativo.

Per completezza di ragionamento, va anche detto che il numero di laureati in Italia è più basso rispetto ad altri paesi occidentali. Ciò dipende da politiche del personale delle aziende spesso sbagliate e da un volume di investimenti (pubblici e privati) in ricerca e innovazione ancora una volta inferiore rispetto ai paesi con i quali ci troviamo a competere. Ciò non fa che complicare ancora di più il quadro complessivo della situazione.

Piccola Aggiunta: per poter completare il ragionamento vale la pena osservare l’andamento delle immatricolazioni nei diversi settori e confrontarli con il diagramma di Alma Laurea che ho postato qui su.

“Il sistema universitario italiano fa un po’ schifo”

Il secondo tema affrontato da Feltri è quello delle “università che fanno schifo”. Lungi da me voler fare una difesa di ufficio del “mio” mondo: esistono problemi che proverò brevemente a tratteggiare più avanti. Ma il numero di affermazioni false sullo stato delle università italiane ha raggiunto livelli francamente non più sostenibili.

Alcuni colleghi hanno creato un sito, www.roars.it, che contiene molti studi e analisi sullo stato delle università italiane. In particolare, suggerisco di leggere questa presentazione che in modo puntiglioso smonta tanti luoghi comuni e bufale che quotidianamente vengono riproposte. Alcuni anni fa, anche io avevo scritto un articolo su lavoce.info proprio per smontare alcuni luoghi comuni, quali, per esempio, il fatto che da noi ci sarebbe la piramide rovesciata dei docenti mentre all’estero no.

Ma veniamo alle critiche di Feltri.

“L’università fa schifo” può essere letta in due modi: è inefficace, cioè produce studenti che non sono in grado di lavorare; è inefficiente, cioè spende troppo.

Sull’inefficace ho un po’ di esperienze relative al mio ateneo. Il Politecnico di Milano è considerato dai datori di lavoro al terzo posto in Europa per qualità dei laureati. Nel mio settore, quasi il 50% degli studenti trova lavoro già prima della laurea. Tutti gli studenti che conoscevo e che sono andati all’estero hanno fatto delle bellissime carriere. In generale, ci lamentiamo dei cervelli in fuga che fanno bellissime carriere all’estero, ma in quali università si sono formati? Ha senso dire che sono bravi all’estero nonostante siano stati formati da una “università che fa schifo”?

Sull’efficienza i dati sono invece direi schiaccianti. Date per esempio un’occhiata a questo recentissimo lavoro di ROARS: se misuriamo quanto costa un punto nella graduatoria di Shanghai (ARWU) confrontando le 20 università top a livello mondiale e le 20 top italiane ci accorgiamo che le nostre sono le più efficienti! Senza dimenticare che l’Italia, nonostante uno dei budget più bassi a livello mondiali per la ricerca è all’ottavo posto per citazioni e produzione scientifica. Ciò non deve consolarci, ma non può nemmeno giustificare le affermazioni di Feltri.

Ma vorrei dare anche qualche dato più puntuale, confrontando la mia università, il Politecnico di Milano, con due università con le quali siamo spesso confrontati: MIT (che è una technical school simile al Poli) e Stanford (che è una università generalista come la Sapienza o l’Università degli Studi di Milano).

I dati sono presi dai siti delle relative università e da Wikipedia (ho fatto i conti in fretta, segnalatemi eventuali errori).

Budget:

Numero di studenti:

  • Politecnico di Milano: circa 40.000
  • Stanford: circa 16.000
  • MIT: circa 11.000

Budget per studente:

  • Politecnico di Milano: 10.750 €
  • Stanford: 318.750 $
  • MIT: 281.800 $

Numero faculty members:

  • Politecnico di Milano: circa 1.500
  • Stanford: 2.118
  • MIT: 1.021

Studenti per faculty member:

  • Politecnico di Milano: 27
  • Stanford: 7,5
  • MIT: 10,7

Vogliamo andare avanti? Sicuri?

Giusto per toglierci uno sfizio, diamo un’occhiata alla ripartizione dei ricavi dell’MIT (per fare un esempio). Spesso si dice che le università americane prendono molti soldi dalle imprese. Questo è quello che c’è scritto sul sito dell’MIT:

 Research sponsored directly by industry totaled $128 million in fiscal year 2014, or 19 percent of all MIT research funding. According to the National Science Foundation, MIT ranks first in industry-financed research and development and development expenditures among all universities and colleges without a medical school.

Il che vuol dire che per fare il restante 81% del budget di ricerca (che vale ben oltre il miliardo di dollari) chi mette i soldi? Lascio a voi indovinare (non è difficile, dai!).

Dimenticavo: un anno di iscrizione a Stanford costa 44.000$ …

Dottor Feltri, le verrebbe da dire ancor che facciamo proprio così schifo?

Morale …

Abbiamo diversi problemi e non possiamo certo ignorarli. Le riforme dell’università che si sono succedute hanno ridotto autonomia, complicato i processi (si pensi al bizantinismo dei concorsi universitari), senza peraltro incidere significativamente sulla valutazione di qualità degli atenei.

Certamente c’è tanto lavoro da fare. Ma per sperare di ottenere qualcosa è essenziale partire da una analisi corretta della situazione. Altrimenti l’unico risultato è quello di chiacchierare, muovere aria e sprecare banda.

P.S.: Piccolo addendum sul rapporto con le imprese. Il Politecnico ha una ventina di Joint Lab con imprese medio-grandi e diversi consorzi (come CEFRIEL, MIP e PoliDesign) che sono stati creati per facilitare il rapporto con le imprese. Inoltre è stato creato PoliHub per sostenere le startup. A questi si aggiungono diversi laboratori dipartimentali come PoliFab. Il tutto nel contesto di risorse che abbiamo visto prima.

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1 COMMENT

  1. Io sono uno di quelli che ha deciso in Italia di non fare l’Universitá.
    Come programmatore avevo trovato lavoro appena finite le superiori, adesso ho la mia Web Agency dove continuo a fare il programmatore.
    Perché non ho frequentato l’universitá? Perché nel settore IT nella maggior parte delle universitá il piano di studi é molto obsoleto e non ti prepara al contatto con i clienti. Inoltre ho visto esperienze di altre persone che durante l’universitá hanno deciso di abbandonare gli studi perché avevano trovato lavoro (sempre riferito al settore informatico).
    Secondo me la domanda da porsi é: i piani di studi sono adeguati? Moderni?
    Con le scienze umanistiche il problema non si pone ma con quello scientifico si.
    Forse é questo il problema, da come la vedo io il fatto che i docenti in questo settore siano “vecchi” e non siano forzati a degli aggiornamenti crea questo problema.
    Per non parlare della questione trovare lavoro, non basta uno stage per imparare a lavorare serve un docente che abbia fatto quel lavoro per darti la tua esperienza mentre noi abbiamo docenti che nella vita hanno fatto solo quello.
    Come puó un docente invogliarmi a studiare per trovare lavoro se lui poi ha trovato lavoro come docente?

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