L’uscita di Sostenibilità Digitale, il nuovo libro di Stefano Epifani, mi ha colto in un momento di frenetica attività e con una lista consistente di “must to read” in attesa. Lista che gestisco come il backlog di un progetto “agile”, prioritizzando di continuo i libri in funzione del valore che la loro lettura promette di darmi.
Sostenibilità Digitale è così andato subito in cima al backlog e non poteva essere diversamente. Il titolo stesso suggerisce una crasi concettuale tra due temi che l’autore racconta da anni con impegno e rigore assoluti: la trasformazione digitale e la sostenibilità economica e sociale del nostro agire.
Temi che anche da soli sarebbero giganteschi, ma che in sinergia diventano un unico grande argomento cruciale che genera dozzine di interrogativi. Come evitare di appiattire l’innovazione solo sulla dimensione tecnologica? Quale sarà il futuro del lavoro e delle interazioni tra entità senzienti – uomini e non solo – con realtà virtuale e intelligenza artificiale? Come indirizzare il cambiamento indotto dal digitale sulle persone, sull’ambiente in cui vivono e sulla società che li vede protagonisti? Questi sono solo alcuni dei quesiti.
Il libro ci racconta con molti esempi come in passato l’umanità abbia sempre reagito ai drastici cambiamenti indotti dalla tecnologia, metabolizzandoli e ricavandone un contributo globale di segno positivo. Non è stata la tecnologia in sé a produrre questo esito, ma il modo prevalente con cui siamo riusciti a declinarla e indirizzarla. Questo però non deve farci dormire sonni tranquilli, non basterà limitarsi a “fare come abbiamo sempre fatto”. Il futuro – che è già presente – ci propone cambiamenti di portata sempre maggiore ad una velocità crescente e non possiamo permetterci di andare per tentativi, seguendo la retorica del fallimento, oggi di tendenza per malintesa interpretazione del “fail fast, fail often” di Seth Godin. Errori locali, nel mondo iperconnesso, hanno conseguenze sistemiche globali.
Il libro racconta tutto questo attraverso le storie di cinque protagonisti, persone comuni con cui possiamo facilmente identificarci, che ci mostrano come la tecnologia in sé non è né buona né cattiva, come del resto è sempre stato. E’ solo uno strumento da utilizzare, con la consapevolezza di poterne determinare gli sviluppi solo parzialmente. Come in un gigantesco e globale processo di risk management, siamo chiamati di continuo a fare scelte per minimizzare – eliminarle non sarebbe possibile – le minacce e massimizzare le opportunità. La proposta di Stefano Epifani è tanto semplice quanto efficace: pesare le nostre scelte e decisioni future di utilizzo della tecnologia in funzione dei criteri di sostenibilità economica, sociale ed ambientale definiti dall’agenda 2030 delle Nazioni Unite.
Il libro raggiunge così un risultato duplice. Da un lato emerge con chiarezza il “core message”: la sostenibilità non può prescindere dal progresso delle tecnologie digitali. Il luddismo non è un’opzione come non lo era nel diciannovesimo secolo.
Dall’altro, con la forza dei contenuti, spazza via l’hype su trasformazione digitale e sostenibilità. Quell’interesse pompato ad arte da media frettolosi o per meri interessi commerciali, che fa adottare soluzioni o avviare progetti non risolutivi di reali problemi ed esigenze. L’hype è usare Blockchain o AI come “gadget” e non in funzione della loro specificità rispetto al caso d’uso, è aggiungere il postfisso “4.0” a qualsiasi cosa indipendentemente da quale fosse il suo numero di versione precedente, è disperdere risorse con la scusa di “muovere l’economia”, abbassando l’efficienza della creazione di valore. In definitiva, l’hype va in direzione diametralmente opposta alla sostenibilità ed è per questo che mi sento di consigliare la lettura di Sostenibilità Digitale, con un payoff che esprime al meglio la nitida sensazione che il libro mi ha lasciato: “a hope against the hype”.
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