#DigitalChampion? Meglio una rete di Chief Digital Officer

Ormai un bel po’ di tempo fa auguravamo da queste pagine al “nuovo” Digital Champion Agostino Ragosa che fosse “social“, fungesse da “hub”, fosse “pop” ed avesse un taglio “europeo”. Era Maggio dello scorso anno, e forse l’estate ci aveva resi più ottimisti del solito. Poi ci fu l’avvicendamento, e gli stessi auspici furono per Francesco Caio, Mr Agenda Digitale part time al quale venne attribuito anche il ruolo di Digital Champion (da molti sovrapposto e confuso con il primo, come fa notare Ernesto Belisario in un suo pezzo). Da allora altri mesi sono passati, ma il bilancio della “digital championship” è presto detto: nulla di fatto.

Il #DigitalChampion inesistente

I due Digital Champion che si sono gattopardescamente avvicendati hanno avuto una cosa in comune: non occuparsi della digital championship. Non sono stati propriamente “social”, come ci auguravamo. Anzi, non lo sono stati per niente. Sui Social Network entrambi sono praticamente dei fantasmi, inesistenti se non sotto forma di hashtag. Men che meno sono stati “pop”: non hanno infatti certo contribuito a rendere più “popolare” la cultura digitale tramite iniziative di divulgazione, o progetti specifici. Sul taglio europeo e sul loro ruolo di hub, pensato per coinvolgere altri testimoni del digitale in un’attività di promozione della cultura della rete, …forse è meglio glissare del tutto.

Un simpatico club di cialtroni
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Tuttavia, a discolpa dei Digital Champion più o meno inconsapevoli che si sono (inutilmente) avvicendati in Italia (con Caio che è – di fatto – ancora in carica), va detto che sono in buona compagnia.
A livello europeo, infatti, non son pochi i Digital Champion che fanno poco o nulla per il loro paese, a testimonianza del fatto che spesso le buone idee possono poco se non accompagnate da un altrettanto buon modello organizzativo. Anzi, va detto che i Digital Champion che hanno sviluppato in tale veste attività e progetti significativi sono l’eccezione. In una regola fatta da quello che pare più un club di simpatici e male assortiti cialtroni che non un gruppo di persone votate alla promozione della cultura digitale. Con la curiosa circostanza per cui sono proprio i Digital Champion dei paesi che meno ne avrebbero bisogno ad essere più attivi. Mentre per i paesi ove ci sarebbe davvero necessità di grandi progetti di sistema sulla Media & Information Literacy – come il nostro per intenderci – nulla o quasi viene fatto da figure che più che prendere l’incarico come una missione lo prendono come la scusa per appuntare un gallone in più sul bavero della giacca. O per avere una buon motivo per aumentare il cachet richiesto per gli eventi ai quali partecipano.

Ottima idea, pessima esecuzione

Viene quindi naturale chiedersi se il modello così concepito da Neelie Kroes sulla falsariga dell’esperienza inglese (la cui artefice Martha Lane-Fox, guarda caso, ha dato le dimissioni dal suo ruolo pubblico di Digital Champion qualche mese fa) non funzioni per colpa delle figure di volta in volta identificate o per l’inconsistenza del modello adottato, che vede la definizione di percorsi strategici di fatto lasciata alla buona volontà di figure sostanzialmente abbandonate a loro stesse.

Quindi, se il modello basato su un Digital Champion attore di cambiamento ha abbondantemente dimostrato di non funzionare, come fare per portare la cultura digitale e la media literacy al di fuori del ristretto nucleo di chi, per vari motivi, se ne occupa?

Una vision di sistema

Serve un progetto di sistema. Un singolo attore, per di più con un incarico sostanzialmente onorario, non può pensare di affrontare la complessità di gestione di un’operazione complessa come quella di cui un Paese come l’Italia ha bisogno. Un progetto che non lo veda come un “testimone” del digitale – come aveva pensato la Kroes – ma che lo configuri come vero e proprio articolatore di una serie strutturata di azioni coordinate che portino la cultura digitale nella pubblica amministrazione, nelle aziende, nella società civile. Un vero e proprio Chief Digital Officer, quindi. Che non agisca come un “campione” solitario, impegnato in una singolar tenzone contro il digital divide, ma come il referente di un’azione di sistema. Più che di un Digital Champion abbiamo bisogno di un progetto di digital championship nazionale, con una vision forte ed obiettivi chiari e misurabili.

Gli ambiti d’azione

Quali gli ambiti d’azione del progetto di digital championship? Presto detto: quelli che lo portino ad operare sulle fasce d’utenza in qualche modo strategiche per il Paese, su quelli che sono settori chiave per lo sviluppo.
  • La rete dei Chief Digital Officer. Persa l’opportunità di avere una figura politica impegnata nel processo di sviluppo dell’economia digitale, rimane il problema di “migrare” la nostra pubblica amministrazione verso modelli compatibili con la società digitale e connessa. Se quella del Presidente del Consiglio di avocare a sé le competenze sul digitale sia stata una scelta corretta o meno lo vedremo ormai nei prossimi mesi. Ciò che è certo è che tale scelta rende ancor più importante la creazione di una vera e propria rete di Chief Digital Officer che, nei diversi Ministeri e nelle diverse amministrazioni, sviluppino progetti di integrazione digitale verticale (rispetto alla singola amministrazione) ed inter-amministrativa (nei rapporti tra amministrazioni). Un ruolo che non può essere ricoperto dall’Agenzia per l’Italia Digitale, e che richiede la costituzione di una rete con un forte coordinamento centrale ed autonomia operativa nell’ambito delle singole Amministrazioni. Una rete che non si occupi soltanto dei temi tecnologici, ma che agisca sulle dimensioni culturali e di processo connesse alla digitalizzazione della nostra PA.
  • Il sistema dei Digital Champion “verticali”. Non un solo Digital Champion, “campione” solitario ed abbandonato a sé stesso, ma una vera e propria rete di Digital Champion “verticali”. Campioni che, nella loro professione, possano “testimoniare” il digitale, i suoi impatti e le sue applicazioni nelle diverse categorie professionali alle quali appartengono. Avvocati, commercianti, professori, imprenditori, giornalisti, esercenti di vario tipo che abbiano compreso il ruolo che il digitale ricopre nel proprio settore e che, forti della loro esperienza personale e di un supporto centrale, si facciano carico della costruzione di percorsi di crescita culturale per i propri colleghi e per il proprio settore (si pensi al turismo, al commercio, alla scuola). Professionisti che, costruendo comunità di pratica, trovino nella cross-fertilization e nel confronto un elemento di forza e nel coordinamento centrale un sostegno in termini di modelli, competenze, strumenti.
  • Giovani e anziani: la forza delle fasce deboli. Sono almeno due le fasce sulle quali sviluppare azioni di formazione verticale e progetti specifici. I giovani e gli anziani: i primi nell’ottica di far si che diventino realmente attori del digitale e non utenti/schiavi degli strumenti di comunicazione digitale, i secondi perché possano sfruttarne i vantaggi e possano fare della rete uno strumento di inclusione sociale. Sono giovani ed anziani le fasce sulle quali impegnarsi con progetti di formazione che prescindano dai modelli tradizionali ed escano dalle “aule”. Quella che serve è una formazione esperenziale, che arrivi nelle piazze di tutti i Comuni italiani, i più grandi come i più remoti. A dimostrare che non sono le persone a dover diventare digitali, ma è il digitale a doversi muovere verso le persone per offrire loro un nuovo sistema di servizi. Consapevolezza delle opportunità del digitale per i giovani che sanno usare gli strumenti, capacità di usare gli strumenti per gli anziani che possono coglierne le opportunità, configurando così il digitale come un vero e proprio ponte culturale tra le generazioni, capace di trarre il meglio da ognuna di esse e di supportarle tutte.
Come gestire un progetto del genere? Negli auspici di molti (compreso quelli del sottoscritto) questo sarebbe dovuto essere uno dei numerosi compiti del sottosegretario al Digitale, che però in questo Governo pare non abbia trovato titolo di esistenza. E’ evidente come il Presidente del Consiglio non possa occuparsene direttamente; c’è da sperare quindi che riesca a circondarsi di una squadra al cui interno, tra le figure coinvolte, trovi posto un gruppo di persone che sappia e voglia prendersi in carico tale attività. Certo è che il tema della Media Literacy è di importanza centrale ed è fondamentale che si sviluppi una consapevolezza dei temi connessi al digitale prima di tutto all’interno delle istituzioni e della politica. Consapevolezza senza la quale punti di vista come quello dell’ex-ministro Carrozza sull’educazione al Digitale, posizioni come quella di Zanonato sul supporto alle aziende innovative o progetti di legge come quello di Boccia sulla WebTax continueranno ad essere l’inevitabile primo frutto di quel digital divide culturale che colpisce primi tra tutti i nostri politici.
E non possiamo sperare che a risolvere la situazione basti sempre un tweet del Presidente del Consiglio

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