La globalizzazione sostenibile

«Non è possibile perseguire simultaneamente la democrazia, l’autodeterminazione nazionale e la globalizzazione economica. Se vogliamo spingere più avanti la globalizzazione, dobbiamo rinunciare allo Stato nazionale oppure alla politica democratica. Se vogliamo mantenere e approfondire la democrazia, dobbiamo scegliere tra lo Stato nazionale e l’integrazione economica internazionale. E se vogliamo conservare lo Stato nazionale e l’autodeterminazione, dobbiamo scegliere tra maggiore democrazia o maggiore globalizzazione. Questo è il trilemma politico fondamentale dell’economia mondiale. I nostri problemi affondano le loro radici nella riluttanza da parte nostra ad affrontare queste scelte ineluttabili.»

(La globalizzazione intelligente, Dani Rodrik)

Capire la globalizzazione che stiamo vivendo è un compito che ogni giorno ci accingiamo a compiere. È infatti impossibile per ciascuno di noi ignorare che viviamo in un mondo fortemente interconnesso e sempre più piccolo. Ce lo ricorda lo smartphone che abbiamo in mano e tutti gli altri device che utilizziamo durante la nostra giornata.

Siamo locali, viviamo nel nostro territorio, ma allo stesso tempo siamo globali perché interconnessi con tutto il resto del mondo o perché siamo anche nomadi, ci piace visitare posti diversi, contaminarci con culture differenti o ne siamo costretti per motivi di lavoro, famigliari ecc. Anche se volessimo essere il più stanziali possibile, siamo comunque, a causa di una tecnologia sempre più esponenziale e invadente, costretti ad essere globali.

Processi di innovazione non più incrementali, ma disruptive, ci costringono in più ad un aggiornamento continuo su tutto quello che avviene. Cambiamenti che prima impiegavano anni ad arrivare nella nostra realtà oggi in pochi mesi o giorni arrivano a mutare la nostra vita quotidiana, la nostra vita professionale, senza che le nostre sinapsi neuronali si siano ancora accese per capire quello che sta veramente accadendo.

In questo contesto abbiamo inoltre un’evoluzione tecnologica che non si ferma e rispetto alla quale spesso non dimostriamo alcuna capacità di governance.

Tutti i mutamenti tecnologici infatti hanno grandi ricadute sociali che se non vengono gestiti o facilitati rischiano non solo di non essere utilizzati al meglio, ma al contrario creano ancora più disorientamento, paura e senso di inadeguatezza. Qualche anno fa ricordavo in un altro mio libro: Il viaggio delle idee. Per una governance dell’innovazione, che spesso ci troviamo di fronte ad un gigantismo tecnologico e ad un nanismo culturale.

Se ci chiedessimo come stanno cambiando le nostre aziende, noteremo come la realtà sia in continua evoluzione. Mentre per anni il modello aziendale ha costituito un mito indistruttibile per tutto ciò che concerne l’organizzazione, ora sempre di più le aziende prendono spunto da concetti e da forme organizzative tipiche. Già Tapscott e Williams in Wikinomics e in Macrowikinomics avevano parlato di questo, ma oggi termini come empatia organizzativa, business collaboration, community entrano direttamente nel linguaggio aziendale. È ormai appurato che se non si costruisce un ecosistema in cui coevolvono i nostri collaboratori, i nostri fornitori e i nostri clienti, in futuro, data la complessità del nostro mondo fatto di innovazione tecnologica rapidissima e globalizzazione, non sarà difficile fare business, ma sarà semplicemente impossibile. Ecco quindi che l’azienda, come dicono Tapscott e Williams, sarà costituita da una serie di “reti di capitale umano” sempre più distribuite – collaborative e basate sull’organizzazione autonoma – che traggono conoscenze e risorse dall’interno come dall’esterno.

Come dice Dani Rodrik è tempo di aprirsi alla dimensione di una globalizzazione intelligente: la globalizzazione è un’estensione globale del capitalismo, entrambi hanno camminato di pari passo e quando nel 2008 c’è stata la crisi generata dalla globalizzazione, è stato necessario avviarsi verso una nuova forma anche di capitalismo, che deve essere affiancato quindi da una governance globale, che sia, appunto, “intelligente”. Altrimenti sarà impossibile affrontare le sfide di un universo del lavoro che sta mutando profondamente profilo, dinamiche, concezioni e ritmi evolutivi.

Per mantenere la propria competitività globale, bisognerà monitorare gli sviluppi del business sul piano internazionale ed attingere a un bacino globale di talenti molto più ampio.

Le alleanze globali, i mercati del capitale umano e le comunità dedite alle peer production consentiranno di accedere a nuovi mercati, idee e tecnologie.

Sarà necessario gestire le risorse umane ed intellettuali superando i confini culturali, disciplinari ed organizzativi. Per prosperare, le imprese dovranno conoscere il mondo (compresi i mercati, le tecnologie e le persone).

Quelle che non lo faranno si troveranno menomate, impossibilitate a competere in un mondo del business che sarà irriconoscibile in base agli standard attuali.

Per fare tutto questo, sottolineano sempre Tapscott e Williams, ha senso non limitarsi a pensare globalmente, ma è necessario agire globalmente. I manager che operano in prima linea si stanno rendendo conto che l’azione globale rappresenta una sfida operativa molto complessa, specie quando si è sommersi da una coltre di sistemi e processi ereditati dal passato.

Ormai l’organizzazione assomiglia ad un organismo ad alto livello di complessità, in cui le singole parti (strutture, ruoli) sono dei sistemi aperti che svolgono sia funzioni specializzate, ma anche funzioni in base ad ambiti di autonomia, sono collegate in una rete di scambi informativi ed economici ed interagiscono tra loro sulla base delle regole del gioco influenzate anche da loro stesse: esse si modificano sia per processi di adattamento all’ambiente esterno sia per input interni.

Gli uomini sono delle risorse del sistema, non solo risorse da utilizzare, il rapporto tra attore e sistema viene definito da una continua dialettica tra cooperazione e conflitto, fra partecipazione e distanza. Competenza e managerialità sono interne al modello.

L’assunzione per le imprese adattive è che i cambiamenti derivanti dall’ambiente circostante non sono prevedibili. L’azienda che si presenta lenta nel modificare le sue strategie e i suoi processi operativi perderà quote di mercato e rapidamente si estinguerà. Se partiamo dal presupposto che vi sono milioni di variabili correlate e ognuna di esse può modificarsi in qualunque momento è necessario che le organizzazioni siano in grado di adattarsi a questi continui cambiamenti. L’organizzazione adattiva ottiene dei benefici quando la membrana che la circonda è permeabile, come in una cellula vivente. Anche il confine di un’organizzazione deve essere abbastanza permeabile da lasciar entrare le informazioni di cui ha bisogno, altrimenti la persona (la cellula) non sarà in grado di agire come richiesto dal sistema e l’organizzazione (il corpo) ne risentirà.

La Adaptive Enterprise deve essere attenta nel percepire sviluppi che possono dar luogo a delle nuove competenze. È un’azienda proattiva che investe per raccogliere ed interpretare dati in merito a cambiamenti nelle preferenze dei clienti, come Amazon ad esempio, che spesso arriva a conoscere le preferenze prima dei loro stessi clienti.

La capacità di sintesi, di ordine alle idee, una forma coerente del brown power libero con l’intelligenza si trasformano semplicemente in un capitale, aumentando l’adattività dell’azienda all’ambiente. Il sapere, il know how accumulati da un individuo sono fonte di innovazione ma sono soggetti ad un’altrettanta rapida fase di dispersione se non adeguatamente coltivati. Ecco che la fase di diffusione, di circolazione, ricombinazione, come direbbe Nonaka, rappresenta il miglior utilizzo dell’intelligenza all’interno del sistema.

Il capitale umano però, deve essere adeguatamente supportato ed integrato al capitale strutturale dell’organizzazione che diventa il contenitore dei processi.

Il capitale strutturale deve quindi essere in grado di amplificare ciò che viene prodotto, deve far sì che le conoscenze, l’uso creativo, le esperienze formative trovino necessario risalto, una rapida condivisione e una crescita collettiva.

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Roberto Panzarani è docente di Innovation Management. Studioso delle problematiche relative al capitale intellettuale in contesti ad elevata innovazione e autore di svariate pubblicazioni. Da molti anni opera nella formazione in Italia. Esperto di Business Innovation, attualmente si occupa dello sviluppo di programmi di innovazione manageriale per il top management delle principali aziende e istituzioni italiane e internazionali. Viaggia continuamente per il mondo, accompagnando le aziende italiane nei principali luoghi dell’innovazione dalla Silicon alla Bangalore Valley, all’Electronic City di Tel Aviv, ai paesi emergenti del Bric e del Civets. L’intento è quello di facilitare cambiamenti interni alle aziende stesse e di creare per loro occasioni di Business nel “nuovo mondo”. L’ultimo suo libro è “Viaggio nell'innovazione. Dentro gli ecosistemi del cambiamento globale”, Guerini e Associati, 2019.

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