Se lo sviluppo sostenibile non è per tutti, allora non è. Un concetto chiarissimo sin dalla nascita dell’Agenda 2030 all’Assemblea Generale ONU del 2015. Lo stesso Papa Francesco, per l’occasione, aveva parlato di “sinergia della speranza”, intendendo l’unione di tutte le forze politiche, istituzionali, economiche e imprenditoriali perché allo sviluppo sostenibile ambientale ed economico propriamente inteso andasse ad aggiungersi quello sociale.
Sulla povertà e sulle disuguaglianze insistono ben due obiettivi di sostenibilità (rispettivamente SDG 1 e SDG 10) ma solo l’ultimo, un obiettivo “di metodo”, è quello che propone delle soluzioni promuovendo partnership globali e suggerendo sinergie tra governi, imprese e società civile allo scopo di rispettare i piani di attuazione.
Secondo il rapporto Asvis 2022 sullo stato dell’arte degli obiettivi sostenibili in Italia, siamo ancora lontani dall’obiettivo internazionale di stanziare, entro il 2030, lo 0,70% del Reddito nazionale lordo (Rnl) previsto dall’Agenda globale al fondo di Aiuto pubblico allo sviluppo, cioè l’insieme di risorse pubbliche destinate dai paesi alle ONG italiane o internazionali e agli altri enti senza scopo di lucro attivi nei paesi in via di sviluppo. Anche l’Europa, rispetto al raggiungimento di questo obiettivo, è ancora lontana: a vanificare il raggiungimento degli obiettivi sono la riduzione delle importazioni dai Paesi in via di sviluppo, che passano dal 5,4% al 3,6% del Pil tra il 2010 e il 2020, la diminuzione della quota di tasse ambientali e l’aumento del debito pubblico.
Alla Cop27, svoltasi nel novembre scorso a Sharm el-Sheik, dopo lunghi negoziati e qualche difficoltà si è giunti alla creazione del fondo “Loss and Damage”, un’operazione di “giustizia climatica” per pagare perdite e danni ai Paesi colpiti da cataclismi causati dal cambiamento climatico che non hanno contribuito a creare.
Partnership, collaborazione, monitoraggio comune
In quanto obiettivo metodologico, la partnership tra paesi è una buona prassi nell’economia circolare, che a livello globale da anni lavora per strutturare degli indicatori comuni. Il passo che precede la collaborazione tra le istituzioni, tra i governi e le imprese è la misurazione degli obiettivi e dei risultati attraverso metriche comuni. Su questo punto l’Italia non si fa trovare impreparata: solo qualche settimana fa, all’interno della Strategia Nazionale per l’Economia circolare, è stata elaborata la specifica tecnica UNI/TS 11820 “Misurazione della circolarità – Metodi ed indicatori per la misurazione dei processi circolari nelle organizzazioni” ad opera di una commissione tecnica che si sta occupando della elaborazione di standard sull’economia circolare con la collaborazione del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica. La sua stesura ha coinvolto oltre 150 organizzazioni, che hanno contribuito a fornire feedback e a stilare le specifiche tecniche.
Secondo il Ministero, “il documento definisce come raccogliere le informazioni utili per la misurazione della circolarità e prevede un set di indicatori (71 in totale, tra quantitativi, qualitativi e quanti-qualitativi) utili alle organizzazioni per verificare l’efficacia delle loro strategie. Gli indicatori si dividono in 7 categorie e comprendono: risorse materiche e componenti; risorse energetiche e idriche; rifiuti ed emissioni; logistica; prodotto e servizio; risorse umane, asset, policy e sostenibilità”. La specifica tecnica è una tappa che si inserisce in un percorso più ampio che porterà alla elaborazione di una norma ISO di misurazione della circolarità a livello internazionale. Dà così la possibilità alle organizzazioni italiane di dotarsi di un proprio strumento di confronto e di scambio sperimentale e prepararsi alle prospettive internazionali.
La ricerca di metriche comuni va ad inserirsi nel progetto OCSE 2021 “Advanced policy instruments for circular economy”, un quadro comune elaborato in occasione del G20 del 2021 in Italia.
Tra le altre metriche vi sono quella sviluppata da Ellen Mac Arthur Foundation, Circulytics, e quella di Circle Economy, Circularity Gap Report, che analizza annualmente statistiche provenienti da diversi paesi.
Un’unica direzione di viaggio: le policy
Ellen Mac Arthur Foundation, nel suo decennale lavoro di studio e armonizzazione dei processi di economia circolare, ha elaborato una roadmap di azioni comuni possibili: attuare politiche sulle responsabilità estesa del produttore e sui sistemi di restituzione dei depositi per sostenere le opportunità circolari dal riutilizzo al riciclaggio; rivedere e armonizzare le classificazioni e le definizioni delle risorse nella legislazione sui rifiuti stabilendo requisiti normativi che consentano alle soluzioni di economia circolare di diventare la norma piuttosto che l’eccezione; applicare un allineamento della tassazione; stanziare sovvenzioni, aiuti di Stato e fondi governativi; rivedere la politica della concorrenza; adeguare i diritti di proprietà intellettuale; assicurare garanzie sulla trasparenza; osservare la regolamentazione digitale e dei dati.
Per questi e molti altri scopi comuni nel 2020, UNIDO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale, ha avviato un processo di consultazioni sull’economia circolare nel percorso verso un’industrializzazione inclusiva e sostenibile con i suoi 170 Stati membri.
Dal rapporto Universal circular economy policy goals scopriamo che, per quel che riguarda la finanza, il numero di fondi azionari pubblici dedicati all’economia circolare è cresciuto vertiginosamente, passando da 2 nel 2018 a 13 fondi alla fine del 2020, per un totale di 4,6 miliardi di dollari di asset in gestione, inclusi fondi di fornitori leader BlackRock, BNP Paribas, Credit Suisse e Goldman Sachs. Anche il capitale di rischio, il private equity e il debito privato hanno visto una rapida accelerazione dell’attività dell’economia circolare, con il numero di fondi del mercato privato decuplicato dal 2016. Una tendenza simile di forte crescita è visibile nel mercato obbligazionario, nei prestiti bancari, nella finanza di progetto e nelle assicurazioni. Questa rapida adozione segna un cambiamento significativo che può consentire alle pratiche di economia circolare di espandersi, catalizzare gli sforzi delle imprese e dei governi e contribuire a invertire lo storico sottofinanziamento dell’SDG12 (consumo e produzione sostenibili).
Oltre alle strategie sugli incentivi, la fondazione cita anche i disincentivi come motore possibile: ad esempio, la tassazione delle esternalità negative in tutte le fasi, ovvero i costi per la società, che si accumulano nel tempo, legati all’inquinamento, ai cambiamenti climatici, alla perdita di biodiversità e allo stress idrico. “Internalizzare” tali costi (introdurli nel meccanismo di mercato), ad esempio dando un prezzo all’inquinamento, può essere un potente incentivo a muoversi verso l’economia circolare. Attraverso le strutture istituzionali e la legislazione, i responsabili politici possono definire quali costi relativi alle attività economiche devono essere contabilizzati, ad esempio quelli sociali (disuguaglianze e cattiva salute) o ambientali (ad es. inquinamento dell’aria, del suolo e dell’acqua).
Per scalare la transizione verso l’economia circolare sono necessarie, da parte della politica e delle istituzioni, una comprensione condivisa della natura sistemica dell’opportunità e una direzione di viaggio comune. Secondo il report “ciò contribuirà a evitare la creazione di un mosaico di soluzioni che rischia di essere frammentato, causando attriti tra confini e confini se non si tiene conto dell’allineamento nazionale e internazionale e aumentando i costi di transazione se le organizzazioni devono conformarsi a un’ampia varietà di schemi diversi”.
L’economia circolare secondo Eni
Guardando al nostro Paese, una società che ha fatto dell’economia circolare una delle leve per il percorso di transizione è Eni.
Attraverso l’attuazione di un modello circolare, i processi aziendali vengono rivisitati, diminuendo il prelievo di risorse naturali, favorendo l’utilizzo di input sostenibili, riducendo e valorizzando gli scarti mediante azioni di recupero e/o riciclo, estendendo la vita utile dei prodotti e degli asset mediante azioni di riuso o riconversione. In tutto questo, l’azienda considera fondamentale agire in sinergia con i vari partner e stakeholder, promuovendo dialogo e collaborazione.
Tra i diversi progetti circolari portati avanti da Eni ci sono quelli finalizzati alla decarbonizzazione dei trasporti: i biocarburanti, prodotti da materie prime che non competono direttamente con colture alimentari e foraggere, come rifiuti e residui agricoli, sono fondamentali per contribuire alla riduzione delle emissioni di gas serra in questo settore.
Le bioraffinerie – centrali per Eni per il raggiungimento dell’obiettivo delle zero emissioni nette entro il 2050 – sono fondamentali anche per la produzione di carburanti sostenibili per l’aviazione (SAF – Sustainable Aviation Fuel). Nel 2022, è stata consolidata una produzione di SAF nella raffineria Eni di Livorno, l’ “Eni Biojet”: il primo SAF di natura totalmente biogenica, realizzato in sinergia con la bioraffineria Eni di Gela, esclusivamente da materie prime di scarto, grassi animali e oli vegetali esausti. Una soluzione importante, questa, per la decarbonizzazione di un settore impattante come quello del trasporto aereo.
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