Industria e accademia, una sinergia vincente nella ricerca di tecnologie per la decarbonizzazione: intervista a Valerio Cozzani

Produzione e utilizzo sostenibile di idrogeno, tecnologie per la cattura, utilizzo e stoccaggio di CO2 e tecnologie con emissioni potenzialmente CO2-negative. Questi gli ambiti di interesse del laboratorio di ricerca congiunto nato dall’accordo tra l’Università di Bologna ed Eni: ne parliamo con il Direttore, Valerio Cozzani

Immagine distribuita da Flickr con licenza CCO

Soluzioni per la produzione e l’utilizzo sostenibile di idrogeno, tecnologie per la cattura e l’utilizzo di CO2 e molto altro ancora. L’innovazione per la decarbonizzazione continua ad avanzare, partendo spesso dalle università: luoghi fertili, veri e propri laboratori di idee che però, troppo spesso, rimangono in fase di progetto, per difficoltà – economiche o strutturali – di portarle alla luce.

Ed è nel superare questi limiti che risiede il potenziale delle partnership di ricerca tra mondo accademico e mondo universitario: due mondi distanti ma che, lavorando in sinergia, mettendo a fattor comune risorse e competenze, possono dare forma a nuove idee innovative, liberando nel concreto il loro potenziale nella direzione dello sviluppo sostenibile. Un potenziale compreso da due realtà importanti come l’Università di Bologna ed Eni che, condividendo questa visione, hanno recentemente stipulato un accordo per la realizzazione, a Ravenna, di un laboratorio congiunto di ricerca dedicato alle nuove tecnologie per la decarbonizzazione e la transizione energetica.

Per saperne di più sui progetti nati in questo nuovo laboratorio abbiamo parlato con il Direttore Valerio Cozzani, Professore ordinario presso il Dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica, Ambientale e dei Materiali all’Università di Bologna: laureato in Ingegneria Chimica nel 1992, insegna all’Università di Bologna dal 2002, dove svolge attività di ricerca nel campo della sicurezza e sostenibilità dei processi industriali, con riferimento particolare allo sviluppo di metodologie innovative per la sicurezza e l’analisi del rischio e di tecnologie sostenibili e sicure per l’energia e la valorizzazione delle risorse ambientali.

Qual è l’importanza della ricerca sull’innovazione tecnologica per la decarbonizzazione per l’Università di Bologna? Può farci un quadro dell’impegno dell’Ateneo in questo campo?

I due temi che rappresentano i pilastri delle politiche future, quelli della decarbonizzazione e della circolarità, sono centrali in diversi ambiti disciplinari dal punto di vista della ricerca. Per quanto riguarda l’aspetto della decarbonizzazione c’è ovviamente un’attività molto forte nell’ambito delle discipline ingegneristiche, quindi per la ricerca di nuove tecnologie e sistemi per l’energia, così come nelle discipline di base, come la chimica e la fisica, e in altre come l’agraria. Ma non solo: abbiamo attività strutturate anche nelle discipline economiche, in relazione agli aspetti di sostenibilità della transizione e della decarbonizzazione, e nelle scienze sociali. Insomma, è uno sforzo importante e molto articolato ed esteso a tutte le aree dell’ateneo, anche a discipline lontane da quelle che si occupano specificatamente di tecnologia.

Pur essendo articolato, tuttavia, questo sforzo non è frammentato: il tutto, infatti, è stato clusterizzato internamente innanzitutto in un centro interdipartimentale di ricerca industriale che si occupa di fonti rinnovabili, energia e mare, e poi attualmente trova una collocazione importante in un progetto promosso nell’ambito del PNRR,  il partenariato esteso “Network of Energy Sustainable Transition” (NEST), nel contesto del quale l’Università di Bologna intercetta quattro aspetti principali: tecnologie per la produzione di idrogeno, tecnologie per lo stoccaggio dell’energia, i materiali per i sistemi energetici, ai quali si aggiunge un quarto ambito, quello delle smart grid e dei sistemi intelligenti di gestione dell’energia.

Il laboratorio congiunto nato dall’accordo con Eni è dedicato proprio allo studio delle nuove tecnologie per la decarbonizzazione e la transizione energetica. Come è nata e come si configura questa partnership?

La partnership con Eni, come quelle con molte altre aziende che lavorano nel settore energetico, è consolidata e dura da anni. Il laboratorio però, nello specifico, è nato da una constatazione, maturata da entrambe le parti: da un lato l’urgenza della decarbonizzazione, dall’altro la difficoltà di tradurre dei concept tecnologici, concetti innovativi che nascono in ambito universitario, in soluzioni che possano essere ingegnerizzate e rese disponibili per la società. E’ importante trovare una congiunzione tra il punto nel quale si ferma la ricerca universitaria, che di solito arriva a un livello di maturità tecnologica non elevato, e la ricerca industriale, il cui valore aggiunto risiede di solito nel perfezionare e rendere disponibili su larga scala tecnologie che sono a un livello di maturità già abbastanza elevato. Ed è, talvolta, la distanza tra questi due attori a creare un ritardo nella messa a disposizione di soluzioni innovative.

Ecco, l’idea alla base del laboratorio congiunto è proprio quella di ridurre questa distanza: di creare, cioè, un ambiente in cui la maturazione delle tecnologie sia più rapida, grazie all’unione delle competenze tra la ricerca universitaria e la ricerca industriale.

Il laboratorio sarà un luogo di ricerca applicata in filiera, coinvolgendo fin da subito non solo Eni ma anche le altre industrie energivore e i contrattisti locali nonché i centri di ricerca internazionali con competenze specifiche su questi temi.

Su quali filoni di ricerca si concentra questo laboratorio?

Siamo impegnati nella ricerca di tecnologie per la produzione di idrogeno e l’utilizzo del carbonio, in sinergia con la trasformazione di idrogeno. Mi spiego meglio: la transizione verso le energie rinnovabili richiede metodi di trasporto e stoccaggio non sempre compatibili con il solo uso e trasporto dell’energia elettrica, il cui stoccaggio, peraltro, sappiamo essere complicato da problemi di varia natura. L’idea di trasformare l’energia elettrica in idrogeno, che è un vettore energetico di tipo chimico, permette in alcuni casi di risolvere questo problema, o comunque rappresenta una soluzione in più per rendere maggiormente efficace la decarbonizzazione di alcuni processi.

Il solo idrogeno, però, in alcuni contesti può avere dei limiti di utilizzo e delle difficoltà d’uso: ecco che spesso, dunque, la sua combinazione con la CO2, il gas serra principale responsabile del cambiamento climatico, può essere utile per fornire vettori energetici più efficaci, o in altri casi per la realizzazione di materiali che permettano uno stoccaggio a lungo termine del carbonio stesso, evitando la sua emissione in atmosfera.

Guardando all’idrogeno, su cosa si concentrano, nello specifico, le vostre attività di ricerca?

Quello che ci interessa maggiormente è l’aspetto della produzione industriale, e gli ambiti generali di attività riguardano l’analisi di processi di ottimizzazione della produzione di idrogeno da rinnovabili. Sappiamo, infatti, che le fonti rinnovabili sono assolutamente preziose, ma anche che hanno alcuni problemi legati alla discontinuità: il sole non c’è di notte, e il vento non soffia sempre con la stessa intensità. Quindi, se vogliamo valorizzare l’energia rinnovabile e trasformarla in idrogeno, la precondizione è gestire al meglio questi elementi di discontinuità. Noi cerchiamo di farlo con soluzioni che vanno dall’integrazione di varie fonti al perfezionamento degli elettrolizzatori. Insomma, maturiamo idee che tentano di migliorare l’efficienza nella produzione di idrogeno a fronte di queste problematiche, promuovendo contestualmente la valorizzazione del principale sottoprodotto dell’elettrolisi, cioè l’ossigeno.

Siete al lavoro anche sullo sviluppo di tecnologie per la cattura, l’utilizzo e lo stoccaggio della CO2: qual è il funzionamento di questa tecnologia?

L’idea iniziale nasce dalla consapevolezza dell’esistenza di settori hard to abate: ambiti, cioè, nei quali la decarbonizzazione non è immediatamente possibile, per mancanza di tecnologie o perché, a seconda dei casi, non è possibile fare a meno della formazione di una certa quota di CO2. L’obiettivo, quindi, è quello di perfezionare tecnologie che permettano di catturare la CO2, evitando di emetterla in atmosfera, per poi utilizzarla. Il concetto che promuoviamo nel laboratorio è dunque quello di trovare strade per trasformare la CO2 in qualcosa di utile, e qui possono esserci diverse possibilità: dalla produzione di materiali alla produzione di vettori energetici, e altro ancora.

Tra gli altri vostri filoni di ricerca figurano anche le tecnologie con emissioni potenzialmente CO2-negative. Può dirci qualcosa di più a questo proposito?

Questo è un filone che, a livello internazionale, si sta affermando negli ultimi anni per cercare di proporre soluzioni che tendano non più verso l’aumento, ma verso la diminuzione della CO2 in atmosfera. L’idea, in questo senso, è quella di catturarla o direttamente dall’atmosfera, tramite DAC (Direct Air Capture), oppure catturare CO2 concettualmente neutra.

Spiego quest’ultimo punto, che è un po’ più complesso. Le biomasse, se bruciate, emettono CO2 esattamente come un combustibile fossile. Tuttavia, questa non viene considerata climalterante perché la biomassa ha un ciclo breve di ricrescita, per cui la stessa CO2 che viene emessa dalla sua combustione viene catturata attraverso la fotosintesi clorofilliana e forma della nuova biomassa: c’è quindi un circolo virtuoso, per cui l’emissione non porta a un accumulo in atmosfera. L’obiettivo è quello, attraverso le tecnologie di cattura e utilizzo, di intervenire in questo ciclo, catturando la CO2 e fissandola in un materiale, per esempio in materiali per l’edilizia, che verranno utilizzati per la costruzione di un edificio. Questo fa sì che la biomassa, per riformarsi, dovrà utilizzare della CO2 che non è più quella che proviene dalla sua stessa combustione, ma che preleva dall’atmosfera. In un meccanismo, quindi, che tenderà a far diminuire l’accumulo in atmosfera di CO2.

Alla luce di questa esperienza di collaborazione, quale valore può apportare una simile sinergia tra mondo accademico e mondo industriale nel percorso verso la sostenibilità digitale?

È difficile che le tecnologie e i concetti che vengono sviluppati nei luoghi di ricerca come le università possano trovare una loro applicazione senza un’iniziativa di tipo industriale. Nelle università, infatti, nascono idee con un potenziale. L’ingegnerizzazione, tuttavia, è un processo al quale possiamo partecipare ma che spesso non possiamo gestire da soli, perché le esigenze e le misure degli investimenti vanno di frequente al di là delle nostre possibilità. Per questo motivo la collaborazione con il mondo produttivo ha una enorme potenzialità: quella di sviluppare armonicamente entrambi gli aspetti, quello dell’innovazione e della maturazione delle nuove tecnologie.

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