Energia sostenibile, il futuro passa dalla fusione: intervista a Giuseppe Gorini

La fusione è una fonte di energia sicura, sostenibile e potenzialmente inesauribile, ma richiede ancora importanti sforzi nello sviluppo tecnologico. Su questo sono impegnati l’Università degli Studi di Milano-Bicocca ed Eni, nell’ambito del loro accordo di ricerca congiunta: ne parliamo con Giuseppe Gorini, Direttore del Dipartimento di Fisica dell’Ateneo

Una fonte di energia sostenibile, sicura e potenzialmente inesauribile. È questo ciò che promette di rappresentare la fusione nucleare: per arrivarci, però, bisognerà passare attraverso una delle più complesse sfide tecnologiche che l’umanità abbia mai affrontato. Una delle soluzioni più promettenti, in questo campo, è la fusione a confinamento magnetico: una tecnologia che, all’interno di un reattore chiamato Tokamak, impiega appunto dei potenti campi magnetici per gestire il plasma a elevatissima temperatura nel quale avviene la fusione.

I tempi sono ancora lunghi, ma sono diversi i progetti in corso, a livello nazionale e internazionale, per arrivare al pieno sviluppo di questa soluzione tecnologica. Tra questi c’è SPARC, il progetto sviluppato da Commonwealth Fusion Systems, società spin-out del Massachusetts Institute of Technology, il cui obiettivo è quello di dimostrare la produzione di energia netta da fusione, ovvero riuscire a produrre più energia di quella necessaria per avviare e mantenere la reazione. In Italia, invece, c’è il progetto scientifico DTTDivertor Tokamak Test – proposto dall’ENEA, che punta alla realizzazione di una macchina sperimentale per rispondere ad alcuni dei nodi più complessi nel percorso verso la fusione.

Progetti, questi, ai quali collaborano attivamente due realtà come l’Università degli Studi di Milano-Bicocca ed Eni, da tempo impegnate nel campo della fusione magnetica. Tanto da averlo identificato come uno dei sei ambiti di ricerca del loro nuovo accordo di ricerca congiunta recentemente stipulato.

Di questo e altro abbiamo parlato con Giuseppe Gorini, Direttore del Dipartimento di Fisica all’Università degli Studi di Milano-Bicocca: dottore di ricerca in fisica presso la Scuola Normale Superiore con una tesi di perfezionamento riguardante le misure di neutroni sul progetto europeo JET in UK, da quasi 40 anni si occupa di fusione termonucleare controllata.

Nell’ottica della transizione energetica, l’impegno dell’Università di Milano-Bicocca è forte, in particolare, per la fusione a confinamento magnetico. A cosa state lavorando, e quali collaborazioni avete all’attivo?

Per quanto riguarda il dipartimento di fisica, le attività che guardano alla transizione energetica rientrano quasi esclusivamente nel campo della fusione, e in particolare della fusione a confinamento magnetico. In questo ambito stiamo lavorando a diversi progetti: oltre all’attività sui materiali, ci occupiamo soprattutto di misure di neutroni, di raggi gamma, che sono un po’ i nostri occhi e le nostre orecchie con cui “entriamo” all’interno del reattore.

Le nostre principali collaborazioni sono quelle con il CNR e con l’ENEA, che è l’Ente nazionale che da sempre coordina le ricerche sulla fusione in Italia, e, ovviamente, quella con Eni: l’ingresso dell’azienda nell’ambito della fusione, in particolare, oltre ad aver rappresentato una novità importante sia nello scenario nazionale che in quello internazionale, ha creato per noi una nuova opportunità di collaborazione, in cui la sfida è quella di lavorare insieme mettendo a fattor comune competenze tra loro complementari.

A che punto siamo nel percorso di sviluppo di questa soluzione?

Tra tutte le fonti di energia delle quali si parla e che in parte sono già operative, la fusione è senz’altro la sfida più impegnativa, che presenta un livello di complessità tecnologica senza paragoni.

Poter ricreare sulla Terra una reazione di fusione controllata con bilancio di energia positivo richiede il raggiungimento di competenze ingegneristiche di altissimo livello. La strada più promettente oggi è quella dei reattori a confinamento magnetico, soluzione alla quale si lavora da molto tempo. Un esperimento che ha dato nuovi risultati di recente, e al quale anch’io lavoro da quasi quarant’anni, è il Joint European Torus (JET): progetto che è nato tra gli anni ’70 e gli anni ’80, il che dà l’idea delle scale temporali associate allo sviluppo di questa sorgente.

Da allora sono stati fatti progressi importantissimi, in tutti gli ambiti. Dal punto di vista della comprensione dei fondamenti, per cui oggi siamo in grado di fare delle simulazioni da principi primi dei processi che avvengono all’interno del reattore; dal punto di vista delle tecnologie, campo nel quale, ad esempio, abbiamo avuto un breakthrough nello sviluppo di superconduttori ad alta temperatura per la produzione di campi magnetici; ma anche nel campo dei materiali: i materiali delle pareti del reattore, infatti, devono sostenere carichi termici di almeno 10 megawatt per metroquadro. Quando ero uno studente un simile materiale non esisteva, ma lo sviluppo ci ha portato oggi a essere prossimi alla soluzione.

Ci sono ambiti, invece, in cui le tecnologie sono ancora da sviluppare: in particolare, il passaggio dall’energia da fusione all’energia elettrica in laboratorio non è mai stato realizzato. Il motivo è che finora si è lavorato sulla prima parte del processo, la prima sfida, che è quella di riuscire a produrre energia da fusione in modo controllato, il che significa riuscire ad avere una situazione stabile per un tempo sufficientemente lungo. Quando si è partiti, questo tempo si misurava in frazioni di secondo, ma quella che immaginiamo nel futuro è una centrale in cui più reattori funzionano alternandosi, quasi come i pistoni di un motore a scoppio, producendo energia in modalità continua.

Per arrivare a questo obiettivo serviranno però ancora importanti sviluppi tecnologici, perché la materia all’interno del reattore, sotto forma di plasma, ha delle caratteristiche che lo rendono particolarmente difficile da gestire. Tuttavia, l’essere già riusciti a controllare per un tempo significativo, e avere in prospettiva la possibilità di controllare questo tipo di stato della materia per un tempo ancora più lungo, è senz’altro da considerare un successo che coniuga scienza e tecnologia.

Qual è il ruolo delle tecnologie digitali nel processo di produzione di energia da fusione a confinamento magnetico?

Quello delle tecnologie digitali è un ruolo fondamentale, in questo come in qualsiasi altro ambito dello sviluppo tecnologico, e lo è più in generale nello sviluppo della fonte di energia, quindi nella sperimentazione. Lo vediamo, anzitutto, nella simulazione dei processi, e dunque dal punto di vista dell’analisi e della predizione numerica, che richiede un tipo di calcoli che sono al limite delle capacità dei computer attualmente disponibili.

Ma non solo. Altri aspetti rispetto ai quali il digitale contribuisce in modo significativo sono quelli della progettazione degli impianti per la fusione, soprattutto quelli nuovi, in modo che, pur nella loro complessità, si possa intervenire per una manutenzione o una modifica in corso d’opera, e in particolare quello del controllo: al bordo del plasma, la “creatura” che come detto si trova all’interno del reattore, avvengono delle micro instabilità che, se non governate, possono portare a delle scariche termiche sulla parete del reattore con una tale concentrazione di energia da produrre dei danni irreversibili. Per questo è fondamentale che venga controllato con delle tecniche attive, per limitare queste instabilità e controllare il modo in cui si scaricano.

Questo controllo viene realizzato, e gli sviluppi vanno proprio in questa direzione, attraverso un sistema combinato di sensori e di attuatori. In Bicocca, insieme a Eni, stiamo lavorando in particolare sui sensori, ovvero sistemi di misura che sono in grado di essere integrati all’interno del sistema di controllo e che consentono di pilotare il reattore, con risposta in tempo reale.

A quali altri progetti, nell’ambito della partnership con Eni, state lavorando nello specifico in questo campo?

Oltre al già citato lavoro sui sensori, con Eni abbiamo in corso diversi altri progetti. Tra le idee di collaborazione una di quelle che mi piace ricordare riguarda il calcolo ad alte prestazioni, il cosiddetto HPC, ambito nel quale sia Eni che Bicocca sono partner di uno dei centri nazionali istituiti con finanziamento del PNRR e stiamo studiando possibili attività insieme, in particolare nello sviluppo di codici di simulazione che, per non essendo a uso esclusivo, servono anche per la fusione magnetica.

Insieme a Eni, poi, collaboriamo ad alcuni dei progetti sulla fusione più importanti nel panorama nazionale e internazionale. Uno dei progetti, in particolare, riguarda lo sviluppo di strumentazioni per i raggi gamma che saranno emessi dal Tokamak SPARC, il primo esperimento di fusione a cui Eni ha aderito e attualmente in sviluppo da parte di Commonwealth Fusion Systems.

In Italia, invece, siamo coinvolti nell’esperimento Divertor Tokamak Test (DTT), proposto dall’ENEA e al quale Eni partecipa con una quota importante. Il progetto punta alla realizzazione del cosiddetto divertore: un dispositivo all’interno del reattore che, tornando al tema fondamentale del controllo del plasma, ha lo scopo di creare una regione tra il plasma ad altissima temperatura e la parete in cui si può intervenire per controllare questa interazione. Nell’esperimento che faremo a Frascati, dunque, andremo a testare diversi tipi di divertore, in modo tale da riuscire a ottimizzare il controllo della macchina.

Qual è il valore aggiunto di una simile collaborazione nell’ottica dello sviluppo della fusione magnetica?

Quello che è fondamentale sottolineare qui è l’importanza della collaborazione tra impresa e Accademia. Il coinvolgimento delle imprese private in attività legate alla fusione magnetica è un processo in corso già da molti anni, ma che nell’ultimo decennio ha avuto senz’altro un’accelerazione: in questo senso, l’aspetto interessante di questo tipo di sinergia è che può creare una dinamica nel settore che potrebbe essere in grado di modificare in modo significativo le tempistiche necessarie allo sviluppo. Ecco, la sfida è proprio quella: nel caso particolare di SPARC, l’obiettivo è quello di riuscire, nel giro di pochi anni, ad accendere, far funzionare e rendere operativo un nuovo esperimento di fusione magnetica, con l’obiettivo di dimostrare la produzione netta di energia da fusione. Per poi passare allo stadio successivo, che è invece un reattore vero e proprio. Questo è possibile solo attraverso l’incontro tra pubblico e privato: e se le università e gli enti pubblici di ricerca, per motivi storici, detengono in questo momento le maggiori competenze, il principale impulso che l’impresa può dare, oltre il sostegno derivante dai finanziamenti, riguarda l’aspetto della gestione dei progetti in corso, per arrivare all’obiettivo in tempi certi.

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