Innovazione sostenibile, dal laboratorio al mercato passando per le partnership: intervista a Marco Orlandi

Intervista a Marco Orlandi, Prorettore Vicario e Professore ordinario di Chimica Analitica all’Università di Milano-Bicocca

Non solo fusione magnetica: la partnership tra Eni e l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, consolidata nel 2022 dalla firma di un accordo di ricerca congiunta della durata di cinque anni, individua altri e strategici ambiti di ricerca, che spaziano dalla transizione energetica alla decarbonizzazione, fino ad arrivare alla bonifica dei suoli contaminati. E prevede, inoltre, nell’ambito del Progetto MUSA – emblema dell’impegno dell’Ateneo per la sostenibilità – la nascita di un Joint Lab in cui i ricercatori saranno impegnati nello sviluppo di soluzioni innovative in ottica Zero Carbon.

Per questo, dopo aver approfondito con Giuseppe Gorini il primo e fondamentale tassello di questa collaborazione, torniamo nell’Ateneo milanese per completare il quadro. E lo facciamo insieme a Marco Orlandi, Prorettore Vicario e Professore ordinario di Chimica Analitica all’Università di Milano-Bicocca: laureato in chimica e scienze biologiche, per sei anni ha diretto il Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra. Da oltre venticinque anni il focus delle sue attività riguarda le trasformazioni da biomasse per ottenere materiali provenienti da risorse rinnovabili: interesse che l’ha portato, per due anni, a condurre le proprie attività di ricerca in Finlandia.

L’Università degli Studi di Milano-Bicocca è particolarmente attiva nell’ambito della transizione energetica. Può farci una panoramica dell’impegno dell’Ateneo in questo campo? Quali collaborazioni avete all’attivo?

L’Università di Milano-Bicocca è nata, oramai 25 anni fa, originariamente con tre dipartimenti: il dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra, di biotecnologie e bioscienze, e di Scienze dei materiali. Erano dipartimenti chiaramente non monodisciplinari, ma che già cercavano di affrontare i problemi in modo olistico: si può dire, quindi, che fin dalla sua nascita l’Ateneo si è interessato allo sviluppo sostenibile, sotto vari punti di vista.

Quello delle collaborazioni è un aspetto che abbiamo perseguito sin da subito, e che nel corso degli anni si è evoluto notevolmente: oggi abbiamo attive moltissime partnership con le industrie, con i principali istituti di ricerca italiani e stranieri e con diverse università italiane. In questo contesto, però, nell’ultimo periodo c’è stato senz’altro un cambio di passo. Anzitutto, l’introduzione di un coordinamento di ateneo ha consentito di trarre ancora maggior valore dalle iniziative che fino a poco tempo venivano gestite da singoli ricercatori o da singoli dipartimenti e questa modalità sta già dando dei buoni risultati. Ma il cambio di prospettiva più rilevante è stato quello di modificare, fin dal principio, le modalità con le quali collaboriamo. Oggi non lavoriamo più per l’azienda, ma lavoriamo insieme all’azienda, con i nostri ricercatori che operano a stretto contatto con i ricercatori industriali fin dalle fasi di sviluppo dei diversi progetti.

In questo contesto si inserisce l’accordo di ricerca congiunta firmato con Eni, che ha l’obiettivo di collaborare su progetti di ricerca di comune interesse. Come si configura questa partnership, e quali ambiti di ricerca sono stati individuati?

Questa partnership è un chiaro esempio di quell’evoluzione nella modalità di collaborazione di cui parlavo in precedenza. Fin dalla nostra nascita, infatti, avevamo già in atto delle collaborazioni da parte di singoli ricercatori con Eni, che si traducevano in borse di studio, piccoli progetti di ricerca e via dicendo. Di recente, però, abbiamo deciso di consolidare questa partnership e, dopo mesi di approfonditi colloqui con la Ricerca e Sviluppo di Eni, siamo giunti a individuare alcuni ambiti di ricerca di primario interesse, rispetto ai quali fin dal principio era fondamentale che i nostri ricercatori e quelli di Eni si accordassero per capire in che modo potessero essere complementari: la fusione a confinamento magnetico, la modellazione di reti di fratture naturali per lo stoccaggio di fluidi nel sottosuolo, le batterie ricaricabili acquose e, per quanto riguarda la bonifica dei terreni e delle acque, una modellistica di acquiferi contaminati e il Biochar per bonifiche.

Oltre questi argomenti, per i quali abbiamo siglato con Eni un Joint Research Agreement, fondamentale per l’Ateneo è anche il progetto MUSA, finanziato dal PNRR, nell’ambito del quale con Eni stiamo realizzando un ambizioso Joint Lab, che nascerà in Bicocca, al cui interno saranno affrontati temi di ricerca rilevanti nell’ottica della decarbonizzazione.

A quali progetti di ricerca state lavorando, con Eni, nel contesto della partnership?

Entro maggiormente nel merito dell’importanza e delle attività che stiamo conducendo in alcuni degli ambiti di ricerca che abbiamo individuato.

Partiamo dalle batterie ricaricabili acquose. Uno dei problemi dell’accumulare energia è proprio avere delle batterie, e siamo quindi impegnati nel valutare l’applicabilità dei dispositivi di accumulo a ioni alcalini: a partire dal Know-how sullo ione litio, l’obiettivo finale sarà il sodio. Per massimizzare l’efficienza, l’elettrolita dovrà essere costituito da soluzioni acquose super concentrate Per questo è necessario studiare bene quale sia il controione e fino a che punto si possa concentrare la soluzione. Il problema legato al reperimento degli ioni delle terre rare spinge la ricerca all’individuazione di nuove strategie quali quelle adottate nell’ambito del progetto. Ancor più avanzati sono gli studi nel campo della bonifica dei suoli contaminati. Qui, come detto in precedenza, abbiamo in atto due attività di ricerca tra loro strettamente correlate. In primo luogo, una modellistica idro-bio-geo-chimica di tipo concettuale. Si parla di modello concettuale di un sito quando si considerano sorgente di contaminazione, vie di migrazione e target in una rappresentazione più o meno schematica; per semplificare, sviluppando questo tipo di modello su situazioni già esistenti si può arrivare ad avere un tipo di bonifica di gran lunga più mirata. In tal senso, si stanno già conducendo, su alcuni siti contaminati, una serie di esperimenti proprio per razionalizzare una procedura metodologica standardizzata che possa essere utilizzata in vari tipi di bonifiche. In secondo luogo, un progetto volto al trattamento biologico di terreni contaminati attraverso lo sviluppo di un Biochar ottenuto da materiali vegetali di scarto coniugato a microrganismi capaci di biodegradare gli inquinanti. I vantaggi derivanti dallo sviluppo di questa tecnologia sono molteplici: stabilizzare il carbonio fissato dalla fotosintesi delle piante, stimolare l’attività metabolica dei microorganismi specializzati nel bio-rimedio e abilitare un modello di economia circolare attraverso l’uso di materiali vegetali  di scarto.

Può dirci qualcosa di più anche a proposito del Progetto MUSA?

Il Progetto MUSA è il fiore all’occhiello del nostro Ateneo sulla sostenibilità, nel contesto del quale, come detto, è prevista la realizzazione in Bicocca di un Joint Lab con Eni il cui obiettivo è quello di utilizzare la CO2 come reattivo chimico combinandola con idrogeno verde, in prima battuta per fare del metanolo.

Differentemente dalle attuali vie di produzione che, a partire da fonti fossili e biomasse, prevedono più passaggi intermedi (da materia prima a gas di sintesi e infine a metanolo), il Joint Lab svilupperà un innovativo catalizzatore per la produzione diretta di metanolo a partire da CO2 tramite sua riduzione con idrogeno verde.

 I catalizzatori messi a punto saranno quindi testati, sempre all’interno del Joint Lab, al fine di raggiungere la formulazione ottimale in grado di garantire la riduzione della CO2 a metanolo in modo cineticamente, ambientalmente ed economicamente compatibile.

In questo contesto, la collaborazione con Eni è fondamentale perché, fin dal principio, lo sviluppo di questi catalizzatori è stato accelerato verso la messa a punto di un processo catalitico che sia sostenibile a livello industriale. Questo è quello che faremo nel Joint Lab e l’idea che ne è alla base e che, peraltro, sta già dando dei risultati interessanti.

Qual è, sulla base di queste esperienze, il valore della collaborazione tra il mondo accademico e quello industriale?

Da chimico, uno dei più grandi errori quando si fa un processo e magari arriva un brevetto è che è già stato fatto tutto il meccanismo della reazione prima di scoprire che, per una serie di motivazioni, non è applicabile su scala industriale. È un bellissimo esperimento da laboratorio, certo, ma non è di particolare interesse per l’industria.

Il vantaggio, dunque, è quello di poter lavorare a stretto contatto con i ricercatori di un’azienda che, fin da subito, sono in grado di dire se, al di là degli ottimi calcoli del miglior chimico computazionale che abbiamo e della bravura dei colleghi, il lavoro può superare il laboratorio. In questo modo si riesce a colmare un gap che c’è stato in molti casi, anche per diversi brevetti qui alla Bicocca. Quindi credo che la collaborazione sia fondamentale, e le due diverse tipologie di conoscenza devono assolutamente potersi incrociare: a partire dal nostro expertise, ma sviluppando il tutto in un’ottica diversa da quella alla quale eravamo abituati.

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