Più Open Data per un minore inquinamento dell’aria

Aprire i dati sulla qualità dell’aria e consentirne l’accesso e l’analisi da parte di chiunque, anche per mettere in atto azioni volte a contenere l’inquinamento. Questo è quello che ciascun Paese dovrebbe fare, ma che fa soltanto la metà dei Governi del mondo, spesso quelli in cui i livelli di smog non sono particolarmente alti. Un nuovo studio dell’ONG OpenAQ, supportato dalla NASA, ha messo in evidenza la correlazione tra apertura dei dati e misure atte a limitare l’emissione di sostanze inquinanti nell’aria, analizzando il livello di accessibilità ai dati sull’inquinamento e riscontrando come chi vive nei Paesi in via di sviluppo abbia più difficoltà rispetto a chi vive in nazioni più ricche.

Cosa dicono i dati?

Esaminando i dati provenienti da 11.000 stazioni di monitoraggio dell’aria in 212 Paesi del mondo (Italia compresa, con oltre 500 stazioni di monitoraggio), i ricercatori hanno dedotto che maggiore è il numero di stazioni, minori sono in genere i livelli di inquinamento. 109 sono le nazioni che mettono a disposizione in formato aperto i dati riferiti alla qualità dell’aria, mentre in diverse altre non esistono nemmeno progetti in corso tesi alla messa a disposizione di informazioni di questo tipo. Il rapporto evidenzia come problematiche siano le realtà come Etiopia, Kenya, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Tanzania e Pakistan, dove peraltro molto alto è il livello di inquinamento dell’aria.

Se si guarda alla disponibilità del dato, il report dice che solo 4 Governi su 10 aprono i dati in tempo reale, anche se in una forma non completamente aperta. 30 sono i Governi che, pur aprendo i dati, mancano di trasparenza, pubblicando “il racconto del dato” senza metterlo a disposizione in formato grezzo e generando spesso disinformazione che arriva a circa 4,4 miliardi di persone nel mondo.

Cosa si potrebbe fare con i dati sulla qualità dell’aria Open?

La missione della ONG autrice del report, OpenAQ, è aggregare e armonizzare i dati aperti sulla qualità dell’aria per promuovere e sostenere l’accesso alle informazioni riferite alla qualità dei posti in cui viviamo, oltre che combattere la disparità di accesso ad aria pulita che esiste nel mondo. La piattaforma attualmente ospita gli open data provenienti dalle stazioni di 93 Paesi e rappresenta la più grande piattaforma dati sulla qualità dell’aria sia in termini di numero di misurazioni presenti che di estensione geografica. A confermare l’interesse per questo tipo di informazione, OpenAQ soddisfa all’incirca 35 milioni di richieste di dati al mese, che espone tramite API.

La piattaforma è completamente open source e, in questi 5 anni di lavoro, ha attratto una nutrita comunità di scienziati, sviluppatori software e altre persone interessate alla creazione di una infrastruttura informativa condivisa e aperta, usata anche da NASA per fare previsioni sulla qualità dell’aria in alcune zone del mondo.

Conoscenza aperta fa rima con sostenibilità?

Se consideriamo il fatto che 1 persona su 8 nel mondo muore a causa dell’inquinamento dell’aria, e che il monitoraggio delle sostanze inquinanti “costringe” i Governi a mettere in atto politiche specifiche, si comprende quanto la conoscenza aperta, anche su questo specifico, tema sia fondamentale. Il lavoro fatto da OpenAQ, infatti, permette di individuare aree geografiche del mondo in cui si presenta la necessità di attivare nuovi controlli o forzare sull’apertura e la pubblicazione dei dati, oltre che lavorare su parametri standard e confrontabili da poter usare per fare analisi di medio e lungo periodo. Per questa ragione, secondo quanto riportato nello studio OpenQA, è importante che siano proprio i Governi ad occuparsi della questione, pubblicando regolarmente e in formato standard e aperto le informazioni, garantendo circa la loro affidabilità e accuratezza oltre che la disponibilità nel tempo. “Le organizzazioni e i Governi – si legge nelle raccomandazioni finali del report – devono garantire investimenti in trasparenza e open data perché questo contribuirà a migliorare la qualità dell’aria”.

Conoscenza aperta non solo dovrebbe fare rima con il concetto di sostenibilità, ma dovrebbe essere un vero e proprio soggetto sottinteso” rincara la dose Stefano Epifani, Presidente del Digital Transformation Institute ed autore di Sostenibilità Digitale. “Non ci sono buoni motivi – anzi, non ci sono motivi – per i quali non si dovrebbe promuovere lo sviluppo di conoscenza aperta se si guarda ai processi di governance in un’ottica di sostenibilità. Ricordo il sindaco di una città colombiana (ma scommetto che varrebbe anche in Italia) che, alla mia domanda sul perché non distribuisse i dati dei quali disponeva sulla qualità dell’aria, mi rispose in un singulto di ingenua sincerità che non intendeva farlo per non ‘alterare’ il mercato immobiliare. Senza rendersi conto che l’alterazione del mercato immobiliare era costituita proprio dalla sua omissione. Agenda 2030 parla di città inclusive, parla di sviluppo sostenibile, parla di equità verso tutti i cittadini. Parla di un mondo rispetto al quale la disponibilità dei dati sull’ambiente che ci circonda è precondizione per una partecipazione consapevole e per quella cittadinanza attiva centrale rispetto a molti degli obiettivi di sviluppo sostenibile che connotano Agenda 2030. Certo: l’esperienza di alcune zone del mondo ci insegna che la divulgazione dei dati deve correre parallela alla costruzione di una cultura civica ed allo sviluppo di un modello di cittadinanza di tipo non discriminatorio, altrimenti il rischio è che si creino processi di ghettizzazione per i quali potrebbero nascere (è successo) quartieri per chi può permettersi di vivere in zone salubri e quartieri ghetto nei quali confinare tutti gli altri. Ma questo non fa che ribadire come gli obiettivi di Agenda 2030 vadano guardati nel loro complesso. Non c’è società sostenibile senza conoscenza e consapevolezza diffusa e condivisa. Ed i dati aperti sono un portentoso strumento di consapevolezza”.

Non valgono pubblicazioni di grafici pronti, mappe o pdf “premasticati” dai Governi. Servono dati aperti perché, come riportato nello studio, se si fa un’analogia con l’arte è un po’ come immaginare un mondo in cui solo quelli che hanno prodotto materiali artistici (i produttori di dati) possano essere artisti (utenti di dati). Quanto si limiterebbe in questo caso la creatività? Quanto peggiore sarebbe il mondo se questo avvenisse?

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