Povertà è disuguaglianza. Economia circolare e primo obiettivo di sostenibilità

In un mondo in cui ad oggi 836 milioni di persone vivono in condizioni di povertà estrema, ciò che ci si aspetta dal futuro è una crescita economica inclusiva. Tramite l'economia circolare sarà possibile ottenere risultati notevoli come la creazione di posti di lavoro e di nuove imprese, cercando di limitare l'inquinamento e le gravi conseguenze ad esso connesse

Immagine distribuita da Rivista Africa

Una crescita economica inclusiva è quello che ci si aspetta dal futuro. Per questo il primo obiettivo di sostenibilità parla di lotta alla povertà intendendo non solo la povertà economica, ma sostanzialmente la disuguaglianza, l’impossibilità di accedere ai servizi essenziali, all’istruzione, oltre a fame, malnutrizione e redditi e risorse insufficienti: 836 milioni di persone ad oggi vivono ancora in povertà estrema, e circa una persona su cinque nelle regioni in via sviluppo vive con meno di 1,25 dollari al giorno. Questi dati si concentrano su due regioni in particolare, Asia meridionale e Africa subsahariana. Le popolazioni che abitano questi luoghi sono sempre più sottoposte alle conseguenze di catastrofi naturali e ambientali. I paesi poveri che non hanno mai beneficiato a sufficienza dell’economia lineare potrebbero essere adatti alle pratiche di economia circolare. Un nuovo paradigma come la circolarità non deve necessariamente venire in soccorso dell’economia lineare, ma può sostituirsi a questa partendo da zero. È quello che accade in modo piuttosto naturale, anche in assenza di dati precisi in luoghi in cui è sì ridotta la produzione, ma anche lo spreco: una regione come l’Africa sub-sahariana è responsabile solo del 5% dei rifiuti mondiali mentre i paesi dell’OCSE ne producono quasi la metà. L’attenzione all’economia circolare nei paesi in via di sviluppo è alta: ad esempio per quel che riguarda le attività di recupero e riciclo dei materiali: secondo l’ILO, i 20 milioni di lavoratori del riciclaggio informale svolgono un ruolo cruciale nel fornire a volte l’unica raccolta di rifiuti disponibile in alcune città ma soprattutto negli slum e nelle baraccopoli. L’economia informale dei paesi in via di sviluppo e delle loro appendici più povere sopperisce così a quella “ufficiale” scegliendo la strada della circolarità invece di passare dal ciclo produci – consuma – getta. Anche per ragioni strutturali: i contesti informali sono spazi per forza di cose condivisi, comuni e circolari, nonché cooperativi.

La crisi che ha fatto la differenza: imparare dalle vulnerabilità

Parlando del contributo che l’economia circolare può apportare al primo obiettivo di sostenibilità, non si può non valutare l’impatto della pandemia sulle strategie di sostenibilità messe in atto dai paesi più poveri. Secondo uno studio dell’Unesco dello scorso anno sono stati proprio i paesi vulnerabili, quelli in via di sviluppo, ad aver accelerato la transizione verso gli obiettivi di sostenibilità dell’Agenda 2030, molto di più – in proporzione – dei paesi sviluppati: oltre che nell’applicazione, come dimostrano alcune buone pratiche, anche nella teoria. Dallo studio Unesco emerge infatti che la priorità della ricerca scientifica sugli obiettivi di sostenibilità è una prerogativa dei paesi in via di sviluppo. Mappando le pubblicazioni di quasi 200 paesi tra il 2011 e il 2019 su 56 temi di ricerca rilevanti per gli SDG emerge che per la maggior parte, i paesi ad alto reddito che rappresentano il 64% della spesa mondiale per la ricerca, inclusi Giappone, Corea del Sud, Stati Uniti e molti paesi europei, hanno mostrato variazioni relativamente modeste nel numero di pubblicazioni prodotte sugli SDG e una quota in calo della ricerca globale. Sorprendentemente, la situazione è diversa per i paesi a basso e medio reddito, che hanno iniziato a spostare le priorità di ricerca verso gli obiettivi di sostenibilità globali. Ad esempio, è più che triplicata la quota di pubblicazioni sul fotovoltaico dei paesi a reddito basso e medio-basso, passando dal 6,2% al 22% del totale mondiale nel periodo di studio, mentre la quota di pubblicazioni su biocarburanti e biomasse è quasi triplicata, passando dall’8,5% al ​​23%. I paesi a basso reddito hanno più che raddoppiato la loro quota di pubblicazioni di ricerca sulle colture più resistenti ai cambiamenti climatici, dal 5% del totale all’11%. E i ricercatori dell’Africa subsahariana hanno contribuito con 361 pubblicazioni su 885 sull’agricoltura di piccole dimensioni nel 2019, più delle 294 dell’Unione europea. Molte delle pratiche sostenibili oggetto delle ricerche sono pratiche circolari, soprattutto per quel che riguarda l’agroecologia e la rigenerazione del suolo. I paesi in via di sviluppo si sono inoltre dimostrati virtuosi anche per quel che riguarda la transizione tecnologica che va più veloce che altrove e che costituisce il driver principale per il passaggio all’economia circolare, anche in seguito alle conseguenze della pandemia. Nell’ottobre 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha segnalato che l’Africa rappresentava circa il 13% di 1000 tecnologie esistenti sviluppate in tutto il mondo in risposta al Covid. Di questi, il 58% riguardava soluzioni digitali come chatbot, auto-strumenti diagnostici e app di tracciamento dei contatti. Un ulteriore 25% di soluzioni erano basate sulla stampa 3D e l’11% sulla robotica.

Viaggio tra le disparità: paesi in via di sviluppo… sostenibile

In generale, lì dove i processi usuranti delle risorse della Terra non sono ancora stati messi in atto, i paesi “Build” come vengono definiti, hanno – contrariamente a quanto si possa pensare – migliori opportunità di instaurare modelli circolari. Sono definiti paesi “build” dal network Circle economy, India, Bangladesh, Etiopia, Nigeria, Pakistan, Filippine e alcuni paesi dell’Africa subsahariana caratterizzati da un’economia agricola, ancora in fase di costruzione delle infrastrutture principali e che tentano di soddisfare i bisogni fondamentali della loro popolazione come l’istruzione e l’assistenza sanitaria. Ospitano circa il 46% della popolazione mondiale. In questi paesi a problemi di reperimento delle risorse spesso si risponde con iniziative locali basate sulla circolarità: l’associazione Nubian Vault ha istituito in Burkina Faso, Mali, Senegal e Togo una tecnica architettonica per costruire tetti a volta senza travi in ​​legno per far fronte alla deforestazione, mentre per affrontare lo spreco di cibo che colpisce il 45% della frutta e verdura fresca raccolta, principalmente a causa della mancanza di celle frigorifere nei paesi Build, in Nigeria agisce ColdHubs, una soluzione post-raccolta, alimentata a energia solare, per il raffreddamento. L’azienda offre agli agricoltori un modello flessibile di abbonamento pay-as-you-store a tariffe che possono permettersi, aiutando ad affrontare la barriera di accesso ai finanziamenti per le soluzioni della catena del freddo e colmando il divario tecnologico per i piccoli agricoltori. Infine, per affrontare il problema delle infrastrutture per il riciclo, la Banca africana di sviluppo sta finanziando la costruzione di un’infrastruttura per la raccolta e il riciclaggio dei rifiuti di plastica in Costa d’Avorio. Utilizzando tecnologie innovative di riciclo, questa operazione non solo fornisce materie prime alle industrie locali, ma sostiene anche il reinserimento sociale ed economico di 2.000 ex militari. L’economia circolare, insomma, diventa una risorsa non solo per la sostenibilità ambientale, ma per quella sociale, fornendo soluzioni che possono combattere i diversi fronti della povertà come da propositi dell’SDG 1.

Per quel che riguarda i paesi “Shift”, ad esempio Cina o Brasile, la loro crescita esponenziale si concentra solo su determinate percentuali di popolazione che sono uscite dalla povertà ma la mobilità sociale rimane estremamente ridotta. Anche se la povertà estrema è meno diffusa, gran parte della ricchezza di questi paesi rimane bloccata nella classe media. La rapida crescita di questi paesi è accompagnata dal bisogno di risorse: rappresentano più della metà dell’estrazione mondiale di risorse e poco meno della metà delle emissioni globali. In Messico, Danone ha costruito un centro di smistamento fuori dalla discarica, dove i raccoglitori di rifiuti possono smistare i rifiuti in modo più efficiente e sicuro. Oltre 400 famiglie hanno visto il loro reddito aumentare del 30% e la loro assistenza sanitaria coperta. Nel frattempo, il Brasile promuove un’impresa sociale, Rede Asta, che aiuta a deviare i rifiuti dalle vaste discariche brasiliane: ogni giorno circa 175.000 tonnellate di rifiuti solidi viene raccolto in tutto il paese, di cui solo circa il 2,7% viene riciclato. L’iniziativa, guidata dalle donne, raccoglie i rifiuti e le attrezzature inutilizzate di centinaia di aziende e offre loro progetti su misura utilizzando i materiali di scarto. A Bogotà, proprio l’economia circolare si fa protagonista di una gestione più intelligente delle acque reflue nel tentativo di restituire il fiume Bogotá al suo antico splendore, inquinato dagli anni ‘50 dalle acque di scarico industriali e casalinghe. L’impianto genera una parte significativa dell’energia necessaria per i propri processi di trattamento di disinfezione. La città sta inoltre catturando biogas pericolosi emessi dalle discariche traboccanti e, nel frattempo, sta fornendo formazione professionale ai giovani. La discarica di Doña Juana è la prima in Colombia a catturare il biogas di discarica e trasformarlo in elettricità riducendo anche l’esposizione delle popolazioni che vivono nei pressi della discarica a gas velenosi come l’ammoniaca e l’idrogeno solforato.

I paesi cosiddetti “shift” come i paesi europei e gli Stati Uniti, pur rappresentando una minoranza del mondo, producono il 43% delle emissioni e rappresentano quasi un terzo di tutta l’estrazione di risorse globale. Nonostante i livelli di consumo eccessivi e una mobilità sociale tendenzialmente alta, la povertà estrema affligge ancora circa lo 0,6% delle persone di questi paesi. Anche qui la forbice si allarga: nell’OCSE, che è composta quasi esclusivamente da nazioni Shift, la disuguaglianza di reddito è la più alta degli ultimi decenni. Qui le pratiche circolari sono all’ordine del giorno: città sostenibili, spazi verdi, mobilità elettrica e decongestionata, tecniche di agroecologia negli orti urbani, centri di riciclo, raccolta e riparazione dei rifiuti, soprattutto nel caso di dispositivi elettronici ma, nonostante gli sforzi, le emissioni e l’estrazione delle risorse rimangono a livelli fin troppo alti.

Economia cooperativa

Nei paesi citati e in molti altri dove ancora possiamo definire larghe aree di povertà a vari livelli, l’economia collaborativa è l’anticamera dell’economia circolare. Le iniziative raccontate sono molto spesso prese da piccole comunità in contesti informali, ma riconosciute le buone pratiche a livello istituzionale, possono fare la differenza. La transizione verso un modello diverso da quello lineare è molto spesso caratterizzato da imprese su piccola scala, facilità di accesso al capitale finanziario, promozione della partecipazione delle donne all’economia locale, creazione di posti di lavoro e espansione del sostegno sociale. In Colombia sono le cooperative che garantiscono i diritti dei raccoglitori di rifiuti dell’economia informale, mentre si stima che in India la Self Employed Women’s Association (SEWA) riunisca un milione e mezzo di donne che lavorano nel settore dei rifiuti e del riciclo. Un caso di studio su tutti citato dalle Nazioni Unite è quello di Dakkada Multi-Purpose Cooperative Society nello stato di Akwa Ibom, in Nigeria che ha ottenuto risultati notevoli riducendo la povertà rurale, rendendo abbordabili i servizi sanitari e l’istruzione, colmando parte del divario di genere, garantendo alle donne un potere economico, aumentando i redditi, la sicurezza del lavoro, il sostentamento e la sicurezza alimentare. Le pratiche circolari, se ben applicate, possono davvero diventare una porta d’uscita dalla povertà. È noto come l’economia circolare possa creare lavoro, imprese, innovazione, risorse, limitare l’inquinamento e le gravi conseguenze ad esso connesse.

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