Se si avesse una macchina del tempo, e si potesse esplorare il futuro, si potrebbe capire il tempo che farà nel 2070. Ma questa non è solo fantascienza, visto che, un recente studio realizzato dall’Università di Wageningen e da quella di Nanjing, pubblicato il 4 maggio sulla rivista scientifica americana Proceedings of the National Academy of Science (Pnas), ha fatto un salto in avanti di cinquant’anni per dirci che, se non si agirà in fretta per arginare i cambiamenti climatici e se non si tenderà alla Zero Carbon, 3,5 miliardi di persone si ritroveranno a vivere in luoghi caldi come lo è oggi il deserto del Sahara.
Qualora non si arginasse il riscaldamento globale, secondo i ricercatori, la temperatura media percepita dall’uomo si alzerebbe di circa 7,5 gradi entro il 2070, ovvero di 3 gradi in più rispetto a quelli previsti. E se ad oggi sono soltanto lo 0,8% le superfici in cui si ha una temperatura media superiore ai 29 gradi, in soli 50 anni, trascurando obiettivi Zero Carbon, queste rappresenterebbero il 19% e avrebbero ricadute su un 30% della popolazione mondiale.
Le persone possono vivere bene ovunque, a prescindere dal clima?
La domanda, apparentemente retorica, trova una risposta in questo studio pubblicato di recente, dove si afferma che a causa di uno sviluppo incontrollato e non sostenibile, un’ampia fetta di popolazione si troverebbe costretta ad abbandonare terre abitate da seimila anni.
La notizia non è certo una notizia, se si tiene conto che già l’Accordo di Parigi del 2015 indica che il riscaldamento globale dovrà essere limitato ad un massimo di 2 gradi (preferibilmente da ridurre a 1,5), alla fine del secolo. Era il 2019 quando sul rapporto Emissions Gap di Nazioni Unite campeggiava la scritta: “Today our report card says we are failing. These are the 4 numbers that hold the fate of so many in balance”.
Nel dichiarare un possibile fallimento rispetto agli obiettivi indicati, il report sottolineava come ogni piccola variazione in aumento sul riscaldamento globale potrebbe comportare impatti sempre più gravi e costosi, tanto che in Special report 1.5, elaborato da una task force di 91 super-esperti provenienti da 40 Paesi, si descrivono gli impatti pressoché catastrofici su diverse aree del pianeta.
Quali le zone più a rischio?
Secondo lo studio pubblicato su Pnas, ad avere i maggiori impatti potrebbero essere proprio le regioni più povere del pianeta, ovvero quelle già oggi molto calde e che potrebbero diventare inabitabili, generando anche i cosiddetti “migranti climatici”, non solo per le temperature, ma anche per l’impossibilità di coltivare cibo.
Una ricerca pubblicata su Scientific Reports, infatti, dimostra, attraverso il ricorso alla Big Data Analysis, come possa esserci una forte correlazione tra cambiamento climatico e caratteristiche del suolo e, pertanto, variazioni di resa agricola. Lo studio dimostra come tra il 2007 e il 2016, nei soli Stati Uniti, ci sia stato un cambiamento nel rendimento in terreni agricoli legati alla variabilità climatica, con un impatto economico negativo di 536 milioni di dollari.
Analizzando dati satellitari, raccolti da droni e da sensoristica IoT, lo studio rivela come è possibile identificare negli Stati Uniti 2,65 milioni di ettari coltivati soggetti a stress idrico che possono essere “salvati” proprio dalla tecnologia, attraverso la costruzione di “mappe di stabilità del rendimento” da usare per mettere in atto pratiche correttive, necessarie a mitigare gli stress indotti dai cambiamenti climatici.
Cambiamenti climatici e trasformazione digitale
Per comprendere la dimensione degli impatti potenziali della trasformazione digitale rispetto ai cambiamenti climatici, particolarmente interessante è il report “Turning Digital Technology innovation into climate action”, pubblicato dall’ITU nel 2019. Se da una parte il report sottolinea, infatti, come il comparto ICT sia “responsabile” di circa l’1.4% delle emissioni globali di gas effetto serra e del 3.6% del consumo globale di elettricità, dall’altra evidenzia come tali consumi – abbattibili peraltro con un approccio sostenibile al digitale (si pensi ai green datacenter) – sono ampliamente compensati dai vantaggi che possono derivare dalla messa a sistema della tecnologia nell’ottica della sostenibilità digitale. In tal senso, l’agenzia delle Nazioni Unite evidenzia come alcune stime parlino di un possibile abbattimento del 15% delle emissioni totali correnti grazie al ricorso al digitale, senza considerare gli impatti di tecnologie leading edge come intelligenza artificiale o blockchain, che potrebbero impattare in maniera più che significativa su questo dato.
Sono diversi gli ambiti rispetto ai quali per l’ITU il digitale rappresenta una leva significativa per comprendere e quindi combattere i cambiamenti climatici. Due in particolare rivestono un ruolo principale:
- Monitoraggio climatico: quasi il 90% dei disastri ambientali dipende direttamente o indirettamente dai cambiamenti climatici. Per questo motivo monitorare l’andamento climatico rappresenta un elemento di grandissima importanza anche in un’ottica di prevenzione rispetto agli impatti sulla popolazione. In quest’ambito satelliti, GPS e connettività Machine 2 Machine a supporto delle infrastrutture di telerilevamento sono elementi centrali di una rete che, anche grazie a strumenti come radiometri ad alta risoluzione e spettrometri per l’imaging avanzato e sistemi di telemetria, può fornire dati a sistemi di big data analysis e di intelligenza artificiale in grado di monitorare ed in taluni casi prevedere fenomeni atmosferici di grande impatto.
- Mitigazione dell’impatto: grazie al digitale si può contribuire in maniera significativa all’abbattimento delle emissioni, attenuando così gli effetti del climate change. In quest’ambito la digitalizzazione riveste un ruolo centrale, per il report ITU, rispetto alla gestione dei processi di efficientamento energetico degli edifici, responsabili da soli del 36% dell’assorbimento energetico nelle città. Sensoristica diffusa ed IoT possono rilevare in tempo reale le condizioni interne, gestendo così i sistemi di condizionamento, l’illuminazione, l’apertura e chiusura delle finestre e trasformando gli edifici in smart building. Allo stesso modo, le stesse tecnologie possono contribuire alla gestione di sistemi di monitoraggio del traffico urbano pensati per ridefinire dinamicamente i percorsi (semafori, sensi unici, ecc…) in funzione del traffico puntuale. I sistemi Smart Grid, inoltre, possono fornire un contributo decisivo per quanto riguarda la distribuzione energetica, ottimizzando la rete elettrica, dimensionandola e abbattendo gli sprechi.
Le tecnologie per il contrasto dei cambiamenti climatici, inoltre, vedono applicazioni anche e soprattutto in una logica di ecosistema. I modelli di economia circolare avranno un ruolo sempre più importante nella gestione delle emissioni e nel contrasto ai cambiamenti climatici, rappresentando un elemento dal quale ripartire non soltanto per la gestione della dimensione ambientale, ma per ripensare dinamiche sociali ed economiche. In tale ambito, strumenti come la blockchain per il controllo delle filiere e la tokenizzazione delle materie prime e l’intelligenza artificiale per lo sviluppo di ecosistemi digitali per la sostenibilità rappresentano prospettive sulle quali ancora molto può e deve essere espresso.
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