La tecnologia tra causa ed effetto nel futuro della mobilità sostenibile

Nei film, quando si vuole far capire allo spettatore che una scena è ambientata nel futuro, il metodo più utilizzato è quello di mostrare strade brulicanti di automobili. È su questo terreno che la fantasia degli sceneggiatori trova gli spazi di espressione più vasti: tra veicoli che si guidano da soli (ma è ancora fantascienza?), si alimentano con i carburanti più
strani (chi non ricorda la scena di Ritorno al Futuro?), volano (come non pensare a Star Wars?), talvolta non si limitano a seguire un percorso ma decidono persino dove andare e lo fanno scambiando battute sagaci con i passeggeri (ed il ricordo va all’Arnold Schwarzenegger di Total Recall). Che sia proiettato in avanti di pochi anni o di decenni, il nostro futuro viene spesso rappresentato attraverso il futuro dell’automobile e – attraverso di essa – della mobilità.

E non è certo un caso. Da sempre lo sviluppo dell’uomo è collegato a quello dei suoi mezzi di trasporto, e da oltre un secolo l’auto rappresenta nell’immaginario collettivo il mezzo di trasporto per eccellenza.

Dal pessimismo dell’intelligenza all’ottimismo della volontà

Tuttavia, quando si pensa al futuro dell’auto, l’impressione è che talvolta si faccia l’errore di anteporre la dimensione tecnologica a tutto il resto. Certo, è ovvio che non si può discutere del futuro del settore senza guardare al futuro delle tecnologie sulle quali esso si basa, soprattutto considerato che quando si parla di automotive ci si riferisce ad uno degli
ambiti più technology intensive che esistano. Ma il fatto che ciò sia ovvio non deve spingerci a guardare a tale settore solo attraverso lo schema interpretativo della tecnologia.

Il rischio che si corre, in tal caso, è quello – scontato – di disegnare un futuro del tutto tecno-centrico. Un futuro nel quale la rappresentazione degli scenari resi possibili dal progresso tecnologico rischia di sopravanzare di gran lunga quello che sarebbe auspicabile se, invece di guardare al cosa si può fare con le tecnologie, ci si concentrasse sul cosa si vuole ottenere con esse e da esse.

Un esercizio che, riprendendo Gramsci, potremmo definire di sostituzione del pessimismo dell’intelligenza (verso quali rischi ci porta lo sviluppo tecnologico?) con l’ottimismo della volontà (quali opportunità vogliamo cogliere dalla tecnologia?).

Se invece di riflettere sul dove ci portano le tecnologie guardassimo a dove vorremmo condurle, infatti, probabilmente riconquisteremmo quella capacità di disegnare il futuro che, talvolta, sembriamo aver perso. E se ciò è valido in generale, è particolarmente importante quando si parla di automobili. Ripensare l’auto non vuol dire infatti limitarsi a ripensare
uno strumento di trasporto. Vuol dire ridefinire, tramite esso, una buona parte del nostro modello sociale.

I grandi trend dell’automotive alla sfida del senso

Un fatto che dovremmo tenere ben presente quando pensiamo al futuro dell’auto, perché il futuro dell’auto è strettamente correlato tanto al futuro di chi a guida quanto delle città e dei territori nei quali è guidata. Ecco quindi che quando si parla dei grandi trend che lo riguardano dovremmo farlo nella consapevolezza che l’assetto che essi avranno
non sarà certo neutro rispetto alle dinamiche che riguarderanno la società di domani nel suo insieme.

Ci si divide tra acronimi: c’è chi preferisce ACES e chi parla di CASE: in ogni caso ci si riferisce alla guida autonoma (Autonomous driving), alla connettività 5G (Connectivity), al processo di transizione energetica verso l’auto elettrica (Electrification) ed alla Shared Mobility. Ai quali si aggiunge il tema dell’uso dell’idrogeno come vettore energetico.
Questi sono – nell’opinione condivisa dei maggiori istituti di ricerca – i grandi trend che riguardano il futuro dell’automobile.

Il problema è che se questi sono i trend verso i quali va l’auto, la strada da percorrere per raggiungerli è tutt’altro che scontata. Ed è qui che si gioca la vera partita del nostro futuro.

La funzione crea l’organo. O viceversa?

Di fronte abbiamo due opzioni.

  • La prima è quella di lasciare che sia lo sviluppo tecnologico a guidare il futuro del settore sulla base di scenari che renderanno città e persone tributari di quelle che saranno le fasi resi possibili dalle tecnologie. Con i loro tempi ed i loro modi. Durante un convegno di qualche anno fa un dirigente della Tesla affermò che visto che le batterie delle auto elettriche avrebbero richiesto in un prossimo futuro un tempo di ricarica stimabile nell’ordine dell’ora, le stazioni di ricarica avrebbero dovuto svilupparsi per offrire ai cittadini servizi compatibili con quella condizione tecnologica. Insomma: la tecnologia che induce e determina i comportamenti sociali.
  • La seconda è quella di immaginare il futuro che vorremo e, in funzione di esso, chiederci come le tecnologie possano venirci incontro. Ed a quel punto sarà lecito riflettere sul fatto che sia accettabile o meno un modello nel quale i guidatori siano costretti ad aspettare un’ora inchiodati in una stazione di servizio – magari piena di servizi, ma pur sempre la versione evoluta di un distributore di carburante – in attesa che l’automobile si
    ricarichi. O se non sia più sensato pensare a soluzioni diverse.

Soluzioni in cerca di problemi

“Soluzioni diverse”: è questa la chiave. Quali sono le soluzioni ed i modelli sociali che vorremmo determinassero lo sviluppo della società nei prossimi anni? Nell’ambito di queste soluzioni qual è il ruolo della mobilità? Nell’ambito di questo ruolo che ruolo possono avere – a loro volta – le tecnologie? Ed in funzione di questo ruolo come possiamo
definire il loro modello di sviluppo?

Stiamo assistendo, in questi anni, ad una vera e propria rivoluzione nel mondo dell’automotive. Parliamo di guida autonoma, ma ci interroghiamo su cosa ciò voglia dire in termini di condizioni delle strade, di modelli di responsabilità, di impatti sulla viabilità? D’altro canto ogni anno proiettiamo di qualche anno in avanti il momento in cui il pilota diventerà un optional, così da non dover affrontare i problemi reali connessi a questo tema, che sono tutt’altro che esclusivamente tecnologici.
Parliamo di auto elettrica, ma ci interroghiamo su temi e modalità di gestione della transizione? Oppure diamo per scontato che “tanto prima, tanto meglio”, senza dar troppo peso al fatto che una gestione incauta della transizione sarà problematica sia in termini di impatto ambientale che di ripercussioni economiche e sociali?
Abbiamo visto auto elettriche correre in improvvisati autodromi urbani, tutto sommato abbastanza incuranti del fatto che l’energia che le alimentava fosse prodotta da fonti fossili o meno.

Ma soprattutto abbiamo dimenticato che la rivoluzione del mondo dell’auto deve essere conseguenza, e non causa della rivoluzione urbana.

Che città vogliamo?

E questo ci riporta al punto di partenza: che città vogliamo? Quali modelli di sviluppo urbano pensiamo siano compatibili con il benessere sociale e con la salvaguardia dell’ambiente? In altri termini: come immaginiamo di ridisegnare le città sulla base di criteri di sostenibilità ambientale, economica e sociale?

La definizione dei modelli di mobilità urbana deve essere figlia, non madre del modello di sviluppo urbano. Stiamo vivendo l’alba di un’era nella quale la crisi del COVID ci sta facendo ripensare molti dei paradigmi ai quali eravamo ormai, più che abituati, assuefatti. Abbiamo l’opportunità di ripensare tali paradigmi dando un ruolo nuovo agli spazi urbani, riorganizzando i modelli di mobilità attorno alla volontà di spostamento e non attorno alla necessità di pendolarismo. Stiamo vivendo la consapevolezza di nuove esigenze che impatteranno sui nostri comportamenti permettendoci, in un percorso di cambiamento, di cogliere le opportunità che ci porta la tecnologia ed il digitale trasformandoci in “smart citizen” per scelta, piuttosto che in “remote worker” per necessità.

Insomma: abbiamo l’opportunità di ripensarci e di ripensare le nostre città passando da una mobilità costruita attorno alla necessità di spostare le persone verso i luoghi di lavoro, di svago o di socializzazione ad una mobilità sviluppata attorno all’opportunità di muoversi forse meno, ma meglio. Senz’altro, per molti di noi, sempre più per scelta che per necessità. E con maggiore facilità per chi dovrà farlo per necessità. E questo, naturalmente, ridefinisce le esigenze della mobilità e con esso i suoi strumenti. Impattando sul modo in cui essi vanno progettati, sui modelli di possesso, sulle dinamiche di gestione.

Impattando anche su quelle politiche pubbliche che avranno la possibilità di rendere la nostra vita più semplice o di complicarla sulla base di provvedimenti talvolta decisamente singolari. Come quelli che hanno messo nelle condizioni, in un recente passato, gli abitanti della Capitale di poter guidare auto a benzina vecchie di vent’anni ed inquinanti come
trattori dell’anteguerra ma non veicoli Euro 6 meno inquinanti, ma colpevoli di essere alimentati da un carburante non di moda. O come quelli che illudono il cittadino di promuovere la mobilità “alternativa” attraverso incentivi che rischiano di riempire le città di monopattini elettrici ma che non affrontano il problema di fondo, che consiste nel come pensare modelli intermodali che consentano ai pendolari di raggiungerli senza dover prendere la loro automobile.

Ripensare la mobilità vuol dire ripensare il modello urbano. E ripensare il modello urbano vuol dire ripensare la nostra società e le nostre città in chiave di sostenibilità. È questo il punto dal quale partire per guardare all’automobile del futuro e per pensare a modelli di mobilità agile e sostenibile che usino le tecnologie a vantaggio di chi guida e che non facciano, invece, di chi guida un “componente” dell’automobile. La sfida è aperta. A noi coglierla.

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