Per decarbonizzare, l’Onu vuole accelerare lo sviluppo delle tecnologie Carbon capture, use and storage

Per ridurre la CO2 con più efficacia e velocità nell’atmosfera e sul Pianeta, bisogna accelerare lo sviluppo delle tecnologie Carbon capture, use and storage (Ccus). Lo evidenzia il Rapporto realizzato dall’Unece

Immagine distribuita da pxfuel

Per decarbonizzare con più efficacia e velocità l’atmosfera e il Pianeta, bisogna accelerare lo sviluppo delle tecnologie Carbon capture, use and storage (Ccus). Lo evidenzia l’omonimo Rapporto ‘Carbon capture, use and storage’ realizzato dalla United Nations economic commission for Europe (Unece), una commissione delle Nazioni Unite.

Nel documento si rileva che sta per scadere il tempo per poter rispettare concretamente l’Accordo di Parigi del 2015 e l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, e che quindi non resta tempo da perdere, mentre molte associazioni ambientaliste contestano e avversano le tecnologie Ccus in quanto – secondo loro – non risolverebbero il problema in maniera adeguata.

Il Carbon capture, use and storage è il processo di cattura delle emissioni di Anidride carbonica – create con la produzione di energia fossile e dai processi industriali – per lo stoccaggio in profondità nel sottosuolo o il riutilizzo della CO2. Per ora queste tecnologie sono rappresentate da impianti pilota realizzati soprattutto nei Paesi Scandinavi, negli Usa e nel Regno Unito, a cui si aggiungono una trentina di progetti da sviluppare in Europa e una ventina in Nord America.

Catturare la CO2 dove viene prodotta e ‘intercettata’

Negli ultimi tre anni sono stati annunciati i piani per oltre 30 nuove strutture di Ccus a livello globale. I progetti che si stanno avvicinando alla decisione finale di investimento rappresentano un budget potenziale stimato di circa 27 miliardi di dollari, più del doppio dell’investimento previsto per il 2017. Questo portafoglio di progetti è sempre più diversificato e raddoppierebbe la quantità di CO2 catturata a livello globale.

Del resto, sono numerosi i sistemi e le tecnologie per catturare CO2 in vari ambiti e settori (alla fonte dalle industrie, produzione di idrogeno da combustibili fossili, incenerimento di rifiuti o produzione di energia, da energia dalle biomasse o direttamente dall’aria), e poi stoccarla (in acquiferi o con Enhanced Oil Recovery), oppure utilizzarla (mineralizzazione, processi chimici o biologici). Sia che si parli di Enhanced Oil Recovery che di stoccaggio nei giacimenti esausti, si tratta sempre di “intombamenti” definitivi: in altri termini la CO2 reagisce con i minerali delle rocce salificando, e quindi rimanendo bloccata come carbonato in modo permanente.

Le soluzioni CCS (carbon capture and storage) e di CCU (carbon capture and utilization) determinano, quindi, due destini alternativi per il carbonio: in un caso esso viene stoccato per sempre in forma di carbonato, nell’altro utilizzato.

Le realtà ambientaliste contestano questo tipo di soluzioni, sostenendo che queste tecnologie sono ancora in fase sperimentale, molto costose e pericolose, mentre si dovrebbe puntare a soluzioni in grado di ridurre subito – non di nascondere sotto terra – le emissioni climalteranti.

La commissione Unece delle Nazioni Unite, invece, invita a spingere sull’acceleratore. Fa notare che i sistemi Ccus comprendono un’ampia gamma di tecnologie già esistenti e anche economicamente redditizie. Secondo il Rapporto Unece, lo sviluppo su larga scala di queste tecnologie consentirebbe ai Paesi di “decarbonizzare il settore energetico e i settori industriali difficili da abbattere a medio termine, per colmare il gap fino a quando le tecnologie energetiche a emissioni di carbonio basse, zero o negative di prossima generazione non saranno disponibili”.

Tecnologie Ccus ancora molto da rafforzare su vasta scala

La quantità di rimozione di CO2 necessaria per raggiungere la Carbon neutrality supera di gran lunga ciò che le attuali tecnologie Ccus possano fare, per cui, secondo l’Unece, nuovi e importanti investimenti “devono essere visti come parte di un portafoglio più ampio di azioni per evitare le conseguenze inaccettabili dei cambiamenti climatici, oltre a implementare tecnologie a basse o zero emissioni di carbonio”.

Ecco una parte dello scenario tracciato dall’analisi della commissione Onu: “l’implementazione su larga scala del Ccus richiederà una vasta capacità di stoccaggio geologico. Attualmente, bacini sedimentari idonei nella regione Unece sono stati identificati nel Nord America e nell’Europa occidentale, in particolare nel Regno Unito, nei Paesi Bassi e in Norvegia. L’Unece – che comprende 56 Stati di Europa, Nord America e Asia – sta preparando uno studio sul potenziale di stoccaggio nell’Europa orientale, nel Caucaso e nell’Asia centrale, in particolare nella grande Federazione Russa, fino a Kazakistan, Azerbaigian e Mar Caspio”.

Tra i progetti in Europa, e in particolare nel nostro Paese, c’è senza dubbio da evidenziare quello di Eni: il sito di Ravenna, infatti, si stima possa stoccare tra i 300 ed i 500 milioni di tonnellate di CO2.

In sostanza, secondo la commissione dell’Onu, la ‘macchina’ è avviata a livello internazionale, ora si dovrà vedere in quali aree e località sarà possibile sviluppare le tecnologie Ccus nella misura che sarebbe necessaria per incidere in modo significativo sulla decarbonizzazione del Pianeta.

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