Quando manca la terra sotto i piedi. Economia circolare e vita sulla Terra

Non si può pensare di risolvere la crisi climatica senza affrontare la perdita di biodiversità e il degrado del suolo. Proprio la minaccia alla biodiversità è stata alla base dell'evento più devastante degli ultimi anni, il Covid19, che ci ha mostrato cosa può accadere di fronte alla scarsa immunizzazione delle specie

Immagine distribuita da Cambialaterra.it con licenza CCO

La seconda parte della Cop15, dedicata alla Convenzione per la Biodiversità, che dovrebbe tenersi fra qualche giorno, minaccia di slittare a fine anno. Una storia, quella della Cop15, particolarmente travagliata, fatta di rimandi e ritardi dovuti alla pandemia e alla presidenza cinese. La Cina, che si è trovata per la prima volta a dirigere un grande summit delle Nazioni Unite su un tema ambientale, lascerà il posto al Canada, continuando a mantenere la presidenza. La provincia cinese dello Yunnan dove si è tenuta a ottobre 2021 la convention, ospita, infatti, i tre quarti delle specie protette. Proprio uno studio cinese, pubblicato all’inizio di quest’anno, aveva messo in relazione le iniziative di conservazione del suolo con l’obiettivo di sostenibilità 15, la vita sulla Terra, spiegando come la restaurazione del suolo degradato, oltre alla conservazione e al mantenimento di quello esistente, siano alla base della tutela della biodiversità e – in misura maggiore o minore – di tutti gli altri obiettivi dell’Agenda 2030.

La minaccia più grande e la soluzione più efficace

Non possiamo risolvere la crisi climatica senza affrontare anche la perdita di biodiversità e il degrado del suolo. La nostra biodiversità e le nostre risorse naturali funzionano come pozzi di carbonio su larga scala e sarebbero, in condizioni normali, il modo più efficace per catturare e immagazzinare il 60% delle emissioni di carbonio annue. Dati dal Regno Unito suggeriscono che negli ultimi 50 anni il 47% della nostra biodiversità è andato perso con circa un milione di specie a rischio estinzione nei prossimi decenni. I più apocalittici parlano già di una sesta estinzione di massa.

Tornare indietro è impossibile, le specie estinte non possono essere riportate in vita, ma si può salvare il salvabile con piani strategici di conservazione. La perdita di biodiversità eclissa anche il cambiamento climatico in quanto emergenza da affrontare: circa 14 dei 17 obiettivi di sostenibilità dipendono dall’equilibrio degli ecosistemi. Peraltro, proprio la minaccia alla biodiversità è stata alla base dell’evento più devastante degli ultimi anni, il Covid19, che ci ha mostrato cosa può accadere di fronte alla scarsa immunizzazione delle specie.

Secondo l’UNEP la minaccia di foreste ed ecosistemi è dovuta per il 90% all’estrazione e alla lavorazione delle risorse naturali. È chiaro, dunque, che bisogna limitare l’estrazione delle risorse e la lavorazione e produzione di materiali per ridurre la pressione sul suolo. Per questo motivo, per il raggiungimento del SDG 15 e per la tutela della biodiversità, l’economia circolare può fare moltissimo, anche più della decarbonizzazione: può allontanarci dalle pratiche estrattive distruttive della nostra attuale economia lineare, verso un modello rigenerativo che mantiene tutti i materiali nel ciclo chiuso. Il piano (di cui ha parlato il Regno Unito in occasione di Cop26) è una semplice roadmap: individuare e analizzare l’impatto che i beni, i prodotti, i processi e i materiali hanno sulla biodiversità e isolare i processi dannosi; allungare il ciclo di vita dei materiali per ridurre la necessità di materie vergini; rigenerare dove possibile le aree degradate una volta limitata la pressione sulle stesse.

L’economia circolare alla prova dei fatti

Secondo analisi recenti di Sitra, un think tank finlandese che si occupa di ambiente e di Ellen MacArthur Foundation, guru dello studio sull’economia circolare, l’economia circolare può arrestare e in parte invertire la perdita di biodiversità entro il 2035, attraverso interventi guidati dalle politiche e dalle imprese nei settori alimentare e agricolo, edilizio, delle fibre, tessile e forestale (ovvero silvicoltura e industria forestale). Questi interventi dovrebbero essere incentrati su principi di produzione rigenerativa, nonché su modelli di business che prolungano la vita dei prodotti, aumentano i tassi di utilizzo e riducono gli sprechi per limitare la nostra estrazione di risorse e affrontare di conseguenza i fattori chiave della perdita di biodiversità: cambiamento nell’uso del suolo, cambiamento climatico, inquinamento, sfruttamento diretto e specie esotiche invasive.

Si è calcolato che, con l’attuazione di politiche circolari e cioè agricoltura rigenerativa, proteine alternative, allungamento del ciclo di vita dei prodotti, soprattutto quelli che comprendono il legname e le fibre tessili, nella sola UE, si potrebbero rimuovere 310 Mt di CO2 netti all’anno dall’uso del suolo e dai settori forestali entro il 2030. Le emissioni di metano dall’agricoltura potrebbero diminuire di quasi il 90%, se accompagnate dall’abbandono della produzione agricola ad alta intensità di bestiame. Ad esempio, la transizione verso proteine ​​alternative potrebbe fornire benefici globali annuali di 170 miliardi di dollari entro il 2030, che saliranno a 500 miliardi di dollari entro il 2050. Ciò potrebbe supportare circa tre milioni di nuovi posti di lavoro all’anno. Per non parlare dei ricavi aziendali: i guadagni nel riciclo del legname da costruzione, la riduzione della perdita e degli sprechi di cibo e il riciclo del cotone, ad esempio, potrebbero fornire alle aziende risparmi annuali tra 0,6 e 1,5 miliardi di dollari all’anno.

I settori più “colpevoli”

I settori incriminati, quelli a più alto tasso di sfruttamento del suolo e colpevoli della perdita di biodiversità sono il cibo, l’edilizia, il tessile e l’imballaggio. Per ognuno però sono possibili soluzioni circolari, già in atto, in grado di limitare di molto il consumo di suolo.

Il cibo

L’attuale settore alimentare è il principale motore della perdita di biodiversità globale e dà un significativo contributo al cambiamento climatico. L’industria del cibo è anche la più grande utilizzatrice di plastica monouso e provoca circa 39 milioni di ettari di degrado del suolo ogni anno. Un’economia circolare in questo settore vuol dire riprogettare il cibo con alimenti prodotti in modo rigenerativo, che utilizzano ingredienti e colture diversi e a basso impatto, eliminando gli sprechi su tutta la filiera e sfruttando tutto il valore nutritivo di ciò che viene coltivato. I terreni possono così beneficiare di coltivazioni di copertura in grado di rigenerare il suolo e pascoli razionali. Le proteine alternative, i sostituti vegetali delle uova e gli integratori proteici su base vegetale permettono di ridurre la pressione sul pascolo – principale colpevole dello sfruttamento del suolo.

Il destino delle foreste, il bacino più ricco e importante di biodiversità, è strettamente correlato alla produzione di cibo. Il pascolo di carne bovina e di soia ha causato la deforestazione dell’Amazzonia, secondo l’allarme di FoodChain ID. Tracciabilità e trasparenza della filiera, consumo sostenibile e riduzione dello spreco permettono di ottimizzare l’approvvigionamento di cibo e quindi ridurre la porzione di terreno necessario a produrlo. Ma a salvare le foreste è anche l’allungamento del ciclo di vita dei prodotti legnosi, o la produzione di prodotti alternativi dalla biomassa.

Proprio in Brasile l’agricoltura rigenerativa di Rizoma Agro con colture a rotazione e un’alternanza circolare di agricoltura e pascolo è il più grande produttore di agricoltura organica e rigenerativa con una produzione che rifornisce grandi multinazionali come Nestlè e Unilever. Le sue tecniche hanno permesso ai suoi allevamenti di raddoppiare la loro capacità di ritenzione idrica e trattenere 41 tonnellate di carbonio per ettaro all’anno, oltre ad aumentare le sostanze nutritive della terra di più punti percentuali.

Edilizia

L’edilizia circolare fatta di modelli di business come affitti e condivisione degli spazi lavorativi, ma anche aumento della densità nelle città – in modo da ridurre anche le distanze e le emissioni dovute ai trasporti – oltre al riutilizzo dei materiali e al design modulabile dei prodotti edili che potrebbero essere demolibili e riutilizzabili, permetterebbe, secondo Ellen MacArthur Foundation, di salvare solo in Europa fino a 30.000 kmq di terra fertile entro il 2050. Prediligere il mantenimento e la ristrutturazione invece che le costruzioni ex novo porta a risparmiare 2,1 trilioni di euro di valore annuo da materiali da costruzione. Un caso virtuoso è quello della Quay Quarter Tower a Sydney, un grande progetto di ristrutturazione che ha permesso di salvare l’equivalente CO2 di 10 mila voli interni mantenendo intatto il 68% dell’edificio originario.

Moda

Abiti riutilizzati, riciclati, fibre scomposte e riutilizzate tramite procedimenti chimici permettono di ridurre la richiesta di prodotti naturali e la pressione sul suolo. Le pratiche circolari nell’industria tessile in Cina hanno dimostrato di poter ridurre la pressione sulla richiesta di materiale vergine del 14%, le emissioni del 28% e non ultima la necessità di trattamento delle acque del 39%. La produzione rigenerativa dei tessuti dovrebbe essere adottata da tutte le aziende di moda anche perché i risultati che ne conseguono consentirebbero un risparmio di 193 miliardi di dollari entro il 2040: dal momento che già l’usato costituisce ad oggi nel settore tessile una gran quota di mercato (si calcola che ne costituirà il 20% nel 2030), sono tantissimi i market digitali dell’usato in tutti i paesi: uno tra tutti, Thread Up, del valore superiore a un miliardo, si occupa di ridare vita agli abiti usati. Tecnologie come la Green Machine, invece, sviluppata da una partnership tra l’Hong Kong Research Institute of Textiles and Apparel (HKRITA) e la H&M Foundation, utilizzano un sistema a circuito chiuso di solo acqua, calore e sostanze chimiche verdi per separare e riciclare completamente cotone e il poliestere mescolabili in nuove fibre.

Packaging

Per ridurre la pressione inquinante della plastica sul suolo (e sull’acqua), tutta la plastica prodotta dovrebbe essere riciclata, riutilizzata o compostabile. Un approccio di questo tipo ha il potenziale di limitare le emissioni di gas serra del 25%, con un risparmio di 200 miliardi di dollari l’anno e la creazione di 700mila posti di lavoro in più. Algramo, una start up cilena, offre prodotti sfusi da inserire in contenitori riutilizzabili, attraverso dispenser in giro per la città. Dopo il successo in Cile durante il lockdown sta lavorando con Walmart, Unilever, Purina di Nestlé e altre multinazionali, contando di espandersi al più presto in Messico ed Europa. Un’alternativa recente sono gli imballaggi edibili di Notpla: Ooho produce bustine a base di alghe e prodotti organici con una biodegradabilità di 6 settimane e che potrebbero garantire una sostenibile alternativa alle bustine monouso di plastica della grande distribuzione.

Policy, tecnologie, risultati

La tecnologia sta cambiando radicalmente l’industria alimentare, con prodotti alternativi e vegani come l’avena tritata finlandese o il kebab berlinese di Vöner e soluzioni emergenti come le proteine ​​dell’uovo provenienti dall’agricoltura cellulare e le proteine ​​in polvere a base di aria di Solar Food. Possiamo dire con relativa certezza che queste soluzioni sempre più competitive continueranno a trasformare l’industria alimentare dal momento che la loro richiesta è aumentata quasi del 300% dal 2020.

La prima cosa da fare, però, è ridurre lo spreco: secondo la FAO, infatti, il 28% dei campi del mondo viene utilizzato per produrre cibo sprecato o perso. Dobbiamo affrontare le perdite a tutti i livelli, dai campi ai siti di produzione, nei negozi, nei ristoranti e ai consumatori. Buone pratiche, in tal senso, ci vengono proposte dall’app ResQ, la versione finlandese della nostra TooGoodToGo, che mette in contatto gli utenti con gli avanzi di ristoranti e negozi di alimentari, e la società britannica Winnow, che utilizza la digitalizzazione per aiutare gli chef a misurare, monitorare e progettare i rifiuti.

Nei prossimi anni l’UE promette di destinare finanziamenti crescenti (il 7,5% della spesa nel 2024 e il 10% entro il 2027) per gli interventi a sostegno della biodiversità ma in termini di rendimento sono le soluzioni circolari che andrebbero implementate: secondo una stima di Sitra ripristinare il 15% del territorio nelle aree prioritarie potrebbe prevenire il 60% dei casi di estinzione previsti. Paradossalmente, un terreno rigenerato e meno sfruttato è più produttivo: una recente analisi della Banca Centrale Europea in collaborazione con l’OCSE dimostra che i paesi che proteggono di più il loro ambiente risentono di un aumento del pil e crescite settoriali più alte rispetto ai paesi che non adottano misure di preservazione ambientale.

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