I paradigmi necessari ad instaurare un modello di economia circolare nel settore Textile&Apparel

L'industria Textile&Apparel è una delle più redditizie a livello globale, ma allo stesso tempo tra le più inquinanti. A questo proposito, in occasione del Copenaghen Fashion Summit, sono stati identificati gli otto criteri di intervento attualmente inseriti nell'agenda annuale del CEO per una svolta sostenibile del settore

L’industria Textile&Apparel (T&A) oltre ad essere una delle più redditizie a livello globale è sicuramente una tra le più inquinanti. Il cambiamento necessario a mutare tale condizione dovrà sovvertire l’attuale modello di produzione/distribuzione e consumo lineare a favore di un modello di business equo-solidale (fair-trade). Le imprese che seguiranno questa direzione non avranno come unico obiettivo la massimizzazione dei propri profitti, fermandosi cosi al puro aspetto economico, ma saranno attente alla soddisfazione di tutte le attese sociali dei vari portatori di interesse (fornitori, dipendenti, consumatori, azionisti, istituzioni) con un forte impegno alla riduzione dell’impatto ambientale. Una direzione di questo tipo, in grado di massimizzare il benessere da ambo le parti e ottenere cosi un approccio win-win, sarà perseguibile attraverso il giusto affiancamento di moda responsabile (arte, cultura, media) da un lato e di moda sostenibile dall’altro; quest’ultima, suddivisa in etica a favore del rispetto della società, ed ecosostenibile nel rispetto ambientale.

Su questo scenario si muove da diverso tempo la Global Fashion Agenda, autrice di uno degli eventi annuali più importanti della moda sostenibile, il Copenaghen Fashion Summit. In questo avvenimento vengono abitualmente proposte differenti strategie e metodologie per attuare e migliorare soluzioni nell’implementazione sostenibile del settore T&A. I criteri di intervento attualmente inseriti nell’agenda annuale del CEO, sono otto:

1) Supply Chain

Con Supply Chain si intende la tracciabilità dell’intera filiera produttiva e dei relativi materiali di produzione. La tracciabilità è fondamentale per la ricostruzione della “storia” di un determinato bene: identifica tutte quelle che sono le attività a monte della produzione, i materiali utilizzati e i vari fornitori e sub-fornitori impegnati nella realizzazione. Si può così ripercorrere tutta la filiera produttiva, dal luogo in cui avviene la prima lavorazione per arrivare poi alla realizzazione del prodotto finito e infine alla sua immissione sul mercato.  Un tipo di Supply Chain performante dà la possibilità alle aziende di servirsi di dati certi per rendersi credibili agli occhi dei propri clienti e restanti stakeholder, cosi da dimostrare il tipo di impatto ambientale che hanno i loro prodotti insieme all’attività produttiva e distributiva. L’innovazione in questo campo può essere determinante grazie all’efficacia delle DLT (Distributed ledger technology, sistema di registrazione e di conservazione di dati attraverso multipli archivi di dati), capaci di assicurare il tracciamento. Inoltre non può non essere considerata la Blockchain, la cui importanza è giustificata dalla capacità di garantire con accuratezza i player coinvolti lungo tutta la filiera, i quali, “mappati” nei diversi momenti del processo, trasmetteranno delle informazioni che, convertite in dati riscontrabili e verificabili nelle etichette parlanti (QR Code) genereranno una totale geolocalizzazione del bene. La Supply Chain, se trasparente, ha la facoltà di individuare un riscontro positivo in termini di fiducia in quanto i consumatori saranno a conoscenza di: “dove” il prodotto è stato realizzato, “quali” materie prime sono state utilizzate e “quanti” passaggi sono avvenuti da un fornitore all’altro.

2) Impatto ambientale

Annualmente il settore T&A ha generato un totale di emissioni pari circa a 1 miliardo e 200 milioni di tonnellate di CO2, superando persino il valore di emissioni dell’intero traffico aereo mondiale. È poi responsabile del 25% dell’inquinamento degli oceani e rilascia ordinariamente un quantitativo ingente di sostanze chimiche dannose provenienti dai processi di tintura, lavaggio, stampa, processo ad umido e finissaggio. La produzione di un capo di abbigliamento e la sua successiva manutenzione ha costi di enorme portata su acqua, energia e risorse non rinnovabili. Inoltre l’insostenibilità ambientale è continuamente amplificata dalla crescente bulimia di domanda, portatrice, rispetto a dieci anni fa, di un aumento del tasso di produzione del 400%. Se da una parte alcune categorie di prodotto in differenti mercati registravano una crescita di prezzo, il settore moda con il fast fashion, correva in controtendenza e proponeva prodotti a prezzi estremamente contenuti. Una situazione del genere ha alimentato e consacrato un tipo di consumo usa e getta con enormi stock di rimanenze invendute. La sovrapproduzione e il sovraconsumo di risorse provocano un continuo eccesso di agricoltura intensiva, eccessivo consumo di acqua, pesca a livelli industriali, sovrasfruttamento industriale, deforestazione e continue emissioni di gas serra. Si ottengono, quindi, danni irreparabili nei confronti dell’habitat e della biodiversità. In un quadro così drammatico le imprese devono affrettarsi ad attuare in maniera concreta e tempestiva misure coraggiose e urgenti. Per esempio, la mappatura di ogni stadio del ciclo di vita di un prodotto permette di comprendere e successivamente agire su quelle aree che necessitano di un intervento:

Materia prima: proveniente da fonti rinnovabili, colture biologiche, o modelli di Reuse/Repair/Recycle (3P);

Filiera produttiva: soluzioni innovative e alternative in grado di eliminare le sostanze nocive tossiche nei processi di tintura, asciugatura e finissaggio, riducendo così i consumi energetici e capaci di riutilizzare acqua di processo; La certificazione Ecolabel (etichetta ecologica di prodotto dell’Unione Europea) a questo proposito garantisce che i prodotti sono stati realizzati con un impatto ambientale minimo.

Logistica: riduzione di imballaggi di carta nei vari box/pack e conversione a favore di trasporti di gpl/metano;

Promozione: un tipo di comunicazione volta all’educazione, alla responsabilizzazione da parte dei fornitori, produttori e sensibilizzazione nei confronti dei consumatori;

Fine vita prodotto: capacità di effettuare un ritorno back in the loop per agevolare processi di riciclo e riuso e garantire un secondo ciclo di vita al prodotto.

3) Risorse idriche

L’acqua è un elemento che viene ampiamente utilizzato in tutte le fasi di lavorazione: coltura intensiva, rimozione impurità, applicazione colori, agenti di finissaggio e scarico con sostanze chimiche annesse. La produzione di un jeans Levi Strauss utilizza circa 3,781 litri di acqua mentre per una maglietta di cotone sono necessari circa 2,700 litri, quantità necessarie a fornire fino a tre anni di acqua potabile per una persona. Una situazione paradossale se si considera che in media sono 1,1 miliardi le persone senza accesso ad acque pulite. È necessaria l’introduzione di tecnologie che permettano di consumare molta meno acqua e meno agenti chimici nelle fasi di lavorazione oltre a implementare colture di risorse naturali e organiche (consumano molta meno acqua e garantiscono un considerevole risparmio idrico).

4) Dimensione sociale

Il settore moda ha cambiato registro di linguaggio nei confronti della CSR (Corporate Social Responsability) dopo il drammatico episodio accaduto a Dacca nel 2013 dove, con il crollo di nove piani del Rana Plaza, morirono 1.129 persone con 2.500 feriti impegnati nella lavorazione e produzione di prodotti d’abbigliamento di svariati marchi a ritmi insostenibili, con salari deplorevoli e in strutture di precarie condizioni. Ad oggi la parte etica e sociale è difficilmente controllata e sostenuta, la mancanza di istanze civiche in differenti paesi in via di sviluppo consentono il proseguire selvaggio di delocalizzazione di attività di produzione a costi minori e con possibilità di ottenere ingenti quantità di beni prodotti. A tale condizione si connette la problematica della schiavitù moderna e dello sfruttamento del lavoro minorile. Sono circa 218 milioni i bambini che lavorano nel mondo, 158 dei quali impegnati nel lavoro minorile. Si considera che almeno 7 su 10 siano impegnati nella lavorazione in campi di agricoltura tessile e di coltivazione cotone. Altri studi evidenziano come siano 45 milioni le persone in schiavitù forzata su uno studio di circa 167 paesi; il 58% di loro si trova nei principali paesi produttori di cotone o abbigliamento. Il settore moda fa quindi parte di quelle 5 realtà che favorisce la schiavitù moderna. Una problematica di questo fenomeno è che il più delle volte le aziende non hanno la possibilità di un controllo diretto di produzione quando entrano in gioco anche sub-fornitori. Di più alta rilevanza è la constatazione che al giorno d’oggi manchi “l’obbligatorietà” di un comportamento etico dettato da leggi vincolanti. Le normative OCSE o ISO sono sicuramente importanti ma non sono richieste come requisiti oggettivi e quindi non sono obbligatorie. A tali norme è necessario l’affiancamento e l’integrazione di ispezioni e auditing di terze parti, neutrali, capaci di verificare tutti gli aspetti della CSR (responsabilità sociale, diritti umani e condizioni di lavoro).

5) Rapporto tra lavoro e salario

Più della metà dei lavoratori del settore manifatturiero/tessile non raggiunge il salario minimo. Un cambiamento necessario è di ridurre il più possibile il minimum wage (tipico dei paesi in via di sviluppo) a favore di quello comunemente noto come living wage (paga dignitosa minima).

6) Fibre sostenibili e certificazioni

La maggior parte dei materiali utilizzati nella produzione tessile è complice dell’insostenibilità ambientale. Il poliestere per esempio, derivante da combustili fossili, è una tipica fibra sintetica man made che copre circa il 62% del mercato mondiale e provoca conseguenze molto gravi sull’ambiente. Le fibre sintetiche infatti nel processo di lavaggio rilasciano microfibre di plastica che compromettono l’equilibrio dell’ambiente acquatico. Il danno che provocano queste fibre riguarda anche la pelle, la quale, a contatto con tale materiale subisce un deterioramento dell’equilibrio termoregolatore e potenziali intossicazioni. Un’altra fibra portatrice di complessità è il cotone: lavorato in più di 90 paesi rappresenta il 2,5% del totale delle terre coltivate. È un tipo di coltura intensiva tra le più diffuse al mondo dopo quella di grano, riso e mais. Gli agricoltori che lavorano nei campi di coltivazione di tale fibra sono più di 250 milioni. È una cultura che fa ampio uso di pesticidi chimici sintetici e fertilizzanti, causa di riduzione della fertilità del suolo e perdita di biodiversità. La produzione comporta inoltre numerosi morti e malattie provenienti per lo più dal contatto continuo con pesticidi chimici. Sono più di 3 milioni le persone che annualmente sono soggette da avvelenamento. Il forte quantitativo d’acqua necessario allo sviluppo di cotone prosciuga i laghi limitrofi. Nonostante tali considerazioni al giorno d’oggi la produzione di cotone biologico rappresenta una quota di circa lo 0,7 della produzione mondiale. Un processo di conversione verso una produzione bio può durare 3 anni e richiedere ingenti investimenti, tuttavia se si considera il progetto in chiave di lungo termine si noterà un enorme risparmio di quantità d’acqua con la possibilità di mantenere i terreni fertili, una riduzione delle sostanze chimiche e l’eliminazione del lavoro minorile nei campi. Attuare il cambiamento significa sfavorire l’uso di fibre con effetti negativi a favore di materiali sostenibili e fibre responsabili, la diversificazione offre una vasta gamma di materiali da cui attingere per la propria produzione: fibre naturali vegetali, fibre biologiche naturali, fibre sostenibile di origine animale, fibre ottenute da risorse rinnovabili, fibre sintetiche riciclate ecc.

Purtroppo la sola materia prima non rappresenta in modo chiaro agli occhi del consumatore un evidente segnale di qualità etica/sostenibile. Ciò spiega il motivo della necessità di adottare numerosi standard e certificazioni che valutino l’operato di una determinata azienda in ottica di performance green. Sono garanzie agli occhi del consumatore. Le certificazioni sono più di 500 e per questo è necessario attuare un lavoro di comunicazione educativo volto a sensibilizzare e informare su quelle considerate più importanti, must-have. Dell’ISO (International Standardization Organization) si ricordano l’ISO 14040 (che certifica la gestione ambientale), l’ISO 14044 (che certifica una corretta gestione ambientale con una valutazione sul ciclo di vita del prodotto). Entrambe certificano l’impatto di un prodotto sull’ambiente e analizzano le varie fasi del suo ciclo di vita, LCA (Life Cycle Assesment). Poi ci sono:

  • Oeko-Tex Standard 100. I prodotti non rilasciano sostanze nocive per la salute dell’uomo;
  • Oeko-Tex Standard 1000. Aggiunge ai criteri del Tex Standard 100 criteri di carattere sociale (condizioni di lavoro);
  • Eu-Ecolabel: Etichetta ecologica di prodotto dell’Unione Europea. Si riferisce a prodotti realizzati con un basso impatto ambientale;
  • Global Organic Textile Standard (GOTS): A certificarlo in Italia è l’ICEA e il Consorzio per il Controllo dei Prodotti Biologici. Il cotone certificato GOTS deve avere il 95% di materia prima proveniente da un tipo di coltura biologica.

Un grande passo avanti sarebbe la messa in atto dell’obbligatorietà di tali certificazioni in ogni impresa produttiva.

7) Circular Economy

L’economia circolare vede il passaggio da un tipo di produzione lineare (take, make, dispose) ad uno di tipo Riuse, Repair, Recycle. Quest’ultimo può riguarda la possibilità di re-inserimento di un bene in un nuovo processo produttivo e garantire cosi un nuovo ciclo di vita. I materiali possono derivare o da scarti di produzione, di “fine pezza” e quindi far parte del processo di Up-cycling o di post consumo e quindi recuperati alla fine del ciclo di vita di un prodotto (Re-cycling). Le bottiglie in PET ne sono un esempio, dopo un’attenta operazione di selezione e pulitura possono essere utilizzate e trasformate in filamenti per tessuti di abbigliamento come il pile. Il riuso è invece fondamentale per allungare il ciclo di vita di un bene destinato a nuovi mercati e nuove tipologie di consumatori (second-hand o vintage). Sono modalità di economia circolare che ogni anno provocherebbero una forte riduzione di produzione di materie prime e di accumulo di rifiuti. Si eliminerebbe la pratica di obsolescenza programmata e si andrebbe a dare vita ad un ciclo di produzione virtuoso capace di ridurre la produzione di 100 miliardi di prodotti l’anno e tutte le conseguenze “tossiche” annesse.  Attualmente solo il 20% degli scarti totali viene raccolto per essere riutilizzato o riciclato.

8) Quarta rivoluzione industriale

La quarta rivoluzione industriale inizierà a svilupparsi quando nella pianificazione di strategie di produzione e sviluppo si affiancherà il processo di innovazione e digitalizzazione. Questo comporterà un modello efficiente di utilizzo e re-utilizzo di materiali destinati inizialmente all’incenerimento (il 73% dei capi di abbigliamento prodotti finisce in discariche o viene incenerito, pratiche di gestione del fine ciclo di vita del prodotto che occorre fortemente scoraggiare). Sono molteplici le realtà che propongono idee e metodologie innovative: Orange Fiber che utilizza lo scarto industriale delle bucce di arancia per ottenere un nuovo tipo di filamento, Vegea che attraverso gli scarti prodotti nella lavorazione del vino ha creato un materiale simile alla pelle come alternativa alla pelle animale, Desserto con pelle vegana nata da cactus, Stampa 3D, Dry Dye che applica un processo di tintura del tessuto senza acqua per risparmiare il 50% di energia. L’interconnessione tra il digitale e la sostenibilità ambientale è necessaria all’implementazione di un modello produttivo virtuoso.

Planet, People, Profit

Sembra chiaro come l’approccio valoriale debba essere connesso all’attenzione sulla qualità ed innovazione del prodotto e della produzione. Tutti i vari stakeholder dell’ecosistema dovranno come prima cosa integrare un approccio sostenibile e favorire in questo modo un risultato win-win: passare da un approccio lineare ad uno circolare, enfatizzare la qualità a discapito della quantità, favorire attraverso processi comunicativi la differenza tra standardizzazione produttiva e qualità artigianale manifatturiera. Se fino a questo momento la finalità economica mal si conciliava con quella ambientale e sociale, oggi tale trade-off deve essere colmato. Anche lo stesso tema della sostenibilità sembra essere sempre più “stra-consumato” e bisogna per questo allontanarsi dal vedere la sostenibilità come un trend a cui rimediare, come una cosa simpatica sulla bocca di tutti. Occorrere capirne l’urgenza e l’eticità di fondo, prendere atto che il profitto buono e quindi l’accumulazione di ricchezza si può raggiungere con il mezzo “tecnologico”. Il buon business può essere realmente raggiunto attraverso politiche verdi. L’economia circolare sarà quel tipo di modello di produzione che meglio rappresenterà il XXI, nel quale, mettendo da parte le tante P dei manuali di marketing, saranno tre, in ordine decrescente di importanza, quelle da considerare e raggiungere: Planet, People, Profit.

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