Di coronavirus, princìpi, privacy e ambiente

Che la terza guerra mondiale si sarebbe combattuta contro un nemico grande meno di un micron qualcuno l’aveva detto da anni (non è un caso che la sfida della salute sia il terzo obiettivo di Agenda2030), ma nessuno – la sostanziale impreparazione globale lo dimostra – aveva preso la cosa davvero sul serio.

Il coronavirus è una delle sfide più grandi di fronte alle quali si sia trovata l’umanità nell’ultimo secolo. Ancora è difficile stimare il numero di morti a livello globale, ma sappiamo che – come in una guerra – saranno più le famiglie che conteranno vittime tra i propri cari ed i propri amici di quelle che potranno non farlo. Come il terrorismo, il coronavirus ha il potere di destabilizzare le coscienze, come il terrorismo non consente di identificare il nemico. Ma più di qualsiasi movimento terroristico è in grado di entrare in ogni casa in maniera subdola, perché il nemico non solo è tra noi, ma è – letteralmente – in noi. Più di qualsiasi disastro nucleare, ha un’area di impatto che copre l’intero pianeta.

La dimensione del concetto di disagio e la fragilità della nuova socialità digitale

A questa situazione il mondo sta reagendo come può, alternando isteria a razionalità, buonsenso a scelleratezza, negazione del problema a reattività. In un crescendo di preoccupazione da parte di chi man mano si rende conto della gravità di un fenomeno che ancora deve mostrare tutto il suo coefficiente di devastazione. Stiamo assistendo a vere e proprie prove generali della (prevedibilmente scarsa) tenuta dei nervi di una società in larga parte impreparata a quelli che saranno i prossimi mesi. Con migliaia di persone che – disabituate al vero concetto di disagio – vivono come disagi anche le più piccole precauzioni, come il dover stare a casa. E c’è solo da sperare che queste persone riescano a rimanere nella beata ed improbabile illusione che siano solo quelli che stiamo vivendo oggi i veri disagi che ci aspettano, e non quelli che dovremo prevedibilmente patire.

In tutto questo si sviluppano, in rete, nuove forme di socialità tecno-determinata. Socialità certo utili ma molto fragili, che aiutano a condividere ed esorcizzare la preoccupazione del momento, ma che dovremo capire se e quanto saranno altrettanto utili per arginare l’angoscia che verrà. Ammesso, ovviamente, che le infrastrutture fisiche reggano l’aumento di traffico di un’umanità che sta migrando in massa on-line. Dobbiamo stare molto attenti a come guardare a queste nuove forme di socialità digitale. Dobbiamo coglierne certamente il valore ed enfatizzarne il ruolo, ma non fare l’errore di dare per scontato che qualcosa che nasce in un momento di crisi come quello che stiamo vivendo sappia sopravvivere anche superata la crisi, o anche sopravvivere alla sua fase più dura. Oppure, addirittura, non derivi in forme nuove e più violente di quell’hate speech che in questi giorni – nelle conversazioni digitali – sembra meno invasivo, ma che è solo sopito sotto uno strato di paura che accomuna nell’identificazione di un nemico, e disorienta nella reazione.

La confusione di insegnamenti e segnali e la necessità di sostenibilità digitale

È presto, troppo presto, per capire quali saranno gli insegnamenti che l’umanità saprà trarre dal coronavirus. Ma proprio per questo dobbiamo guardare invece con grande attenzione a quei segnali che già oggi arrivano da più parti – da istituzioni come da esperti, da politici come da attori della società civile – rispetto a temi di grandissima importanza per il nostro futuro e che hanno come minimo comune denominatore la sostenibilità, sia essa ambientale, economica o sociale. Ed è oggi che dobbiamo stare attenti. Proprio perché non si confondano semplici segnali – talvolta di attenzione, talaltra di panico – con ben più complesse “lezioni” che ancora non possiamo trarre. Perché è nei momenti di crisi, nei momenti di panico generalizzato, nei momenti di confusione più forte che si corrono rischi che non possiamo permetterci di correre.

Privacy o salute pubblica?

Tra questi, quello di abdicare a princìpi fondamentali, che tanto difficile è stato acquisire quanto è facile rischiare di perdere. Basti pensare a quanti – rispetto al tema della privacy – oggi parlano con un po’ troppa leggerezza di sistemi di contact tracing per tracciare gli spostamenti dei malati, e addirittura della pubblicazione dei loro dati per risalire alla rete dei contatti e, quindi, dei potenziali infettati. La salute pubblica prioritaria rispetto ai diritti individuali, certo. Ma non dobbiamo correre il rischio che con il pretesto di salvare l’umanità non si finisca con il perdere di vista la necessità di farlo preservando la nostra, di umanità. Anche soltanto pensare di guardare a sistemi che, in virtù di un interesse più alto, ledano la privacy dei cittadini divulgando dati sensibili in forma non aggregata, deve essere fatto da parte delle Istituzioni con grandissima consapevolezza. Consapevolezza di ciò che si ottiene e di ciò che si rischia. Consapevolezza – ad esempio – che questo, in una società che in una fase di crisi tenderà ad incattivirsi, potrebbe dare la stura a vere e proprie caccie all’untore.

Oggi il ricorso a big data e sistemi di tracciamento dei movimenti degli utenti è senz’altro possibile. E se può esser fatto per vendere una bibita potrà essere fatto in un’emergenza come questa, verrebbe da dire (al netto di piccoli ed insignificanti dettagli come il GDPR). Ma allora è lecito chiedersi quale sarà, una volta varcata la soglia della discrezionalità, il limite da accettare per varcarla nuovamente: un atto terroristico? Il rischio di una strage? Un omicidio? Un furto? Un atto di protesta verso il Governo di turno? Partecipare ad una manifestazione? Quale sarà il limite?

Per questo dobbiamo definire un orizzonte al quale guardare per avere – al di là dell’emergenza – un sistema di riferimento nel momento in cui i Governi faranno le loro scelte ed i cittadini si troveranno a doverle accettare. Ed i sistemi di riferimento li abbiamo: sono il framework dei diritti umani ed Agenda 2030. Perfettibili, certo, ma condivisi.

Pensare alla sostenibilità digitale, in tal senso, vuol dire pensare a quale debba essere il modello di adozione delle tecnologie nel rispetto non solo dell’obiettivo specifico (in questo caso il terzo di Agenda2030), ma di quel sistema complesso di obiettivi che – complessivamente – garantisce il nostro modello di società. O ciò che questo modello vorremmo che diventasse per i nostri figli.

Sostenibilità eco-centrica o tecno-centrica?

Abbondano, in rete, le immagini che mostrano come con settimane di blocco totale a Wuhan sia diminuito l’inquinamento. Ed immagini simili si iniziano a vedere per la Lombardia. Immagini che non fanno che ribadire l’ovvio: fermando tutto si ferma tutto, appunto. Anche l’inquinamento. Tuttavia, se ciò ovviamente ci consente di capire che un cambio di direzione è possibile e che la battaglia per il clima e per l’ambiente non è persa, non ci aiuta più di tanto a capire come affrontarla. ZeroCarbon non può essere sinonimo di crescita economica nulla. Non può e non deve essere sinonimo di quella che viene definita “sostenibilità molto forte”, che considera imperativa una riduzione dell’economia e della popolazione, con un abbattimento dei consumi che sia finalizzato a ridurre al minimo l’impatto sulle risorse a discapito della qualità della vita.

Altrimenti, in effetti, il Coronavirus sarebbe un ottimo alleato della sostenibilità.

Piuttosto che dividersi in fautori della sostenibilità forte (o eco-centrica) e quelli della sostenibilità debole (o tecno-centrica), invece, dobbiamo oggi guardare alla sostenibilità in ottica di sistema, ricordandoci sempre che ambiente, società ed economia sono interdipendenti. E facendo della tecnologia uno strumento in grado di incidere sui processi sociali ed impattare sullo stile di vita così da permettere, grazie ad essa, di non intaccare il capitale naturale del quale disponiamo e di non compromettere, così, i diritti delle generazioni future. In cosa ci aiuta, in questo, l’esperienza che stiamo vivendo?

La vera lezione dal coronavirus per l’ambiente

Più che dimostrare – come alla fiera dell’ovvio – che paralizzando le nazioni l’inquinamento diminuisce, la lezione che possiamo apprendere da questo periodo è che cambiare non è impossibile. I morti che farà il coronavirus non sono di più, o più significativi, di quelli che fanno le malattie che dipendono dall’inquinamento. Sono “solo” più concentrati nel tempo, e più evidenti. Eppure, a causa del coronavirus milioni di persone si stanno impegnando per ridisegnare il proprio stile di vita in maniera repentina. Perché vedono e percepiscono il rischio. Lo vedono concreto. Immediato. Diretto. E per questo sono disposte ad affrontare un cambiamento profondamente invasivo, benché auspicabilmente temporaneo, delle proprie esistenze.

Ma questo dimostra che cambiare è possibile, se c’è la giusta motivazione per farlo. Cerchiamo – oggi – di capire e far capire che la salvaguardia dell’ambiente non è una motivazione meno importante del coronavirus. Cerchiamo oggi di capire e di far capire che zerocarbon non è una parola vuota o uno slogan, ma una strada indispensabile per evitare danni del tutto paragonabili, anzi infinitamente superiori, a quelli che produrrà coronavirus. Cerchiamo oggi di capire e far capire, inoltre, che cambiare stile di vita per l’ambiente non vuol dire peggiorarlo, ma – talvolta – recuperare spazi, modi e tempi di socialità e di vita che possono persino portare a migliorarlo.

Cerchiamo di capire e far capire che se il nostro stile di vita può cambiare (in peggio) in maniera profonda ma temporanea per un virus, lo può fare in maniera permanente, meno invasiva ma non certo meno importante, per l’ambiente. E può farlo in meglio.

Perché ciò sia possibile servono due fattori: percezione della concretezza del rischio e consapevolezza della possibilità del cambiamento. Se nel caso dell’ambiente la concretezza del rischio è sempre più presente nella nostra società, il coronavirus ha eliminato l’unica altra motivazione possibile per non cambiare: la consapevolezza della possibilità di farlo.

Oggi sappiamo che il mondo può fermarsi per un virus. La sfida dell’ambiente, quella di Agenda 2030, non richiede che il mondo si fermi, ma che cambi profondamente passo. Un cambiamento possibile, che vede nella sostenibilità digitale un’alleata insostituibile ed uno strumento portentoso.

Facebook Comments

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here