Big Data: quanti li conoscono (senza evitarli)?

Sono soltanto 4 italiani su 10 a conoscere il termine Big Data e saperlo descrivere. Situazione poco diversa rispetto a quella del 2018 secondo la ricerca Retail Transformation 2.0, elaborata per il secondo anno consecutivo dal Digital Transformation Institute e Cfmt.

Quasi 9 su 10 sono le persone consapevoli del fatto che acquisire informazioni su un prodotto o un servizio è oggi molto più facile che in passato, ma ancora pochi sono coloro che hanno chiaro il meccanismo della raccolta dati finalizzata a personalizzare offerte commerciali e informazioni. Scarsa la conoscenza della tecnologia Big Data anche rispetto ad altre tecnologie digitali con cui gli intervistati mostrano maggiore familiarità come social network (95% quelli che affermano di sapere di cosa si tratta), AI (82%), Innovazione Sostenibile (76%) e Realtà Aumentata e Virtuale (75%).

Quali i significati attribuiti a Big Data?

Se è vero che tra le parole più usate per descrivere Big Data troviamo raccolta, informazioni, enormi, analisi è anche vero che alcune definizioni sono abbastanza vicine alla realtà, come quella che li descrive come “grandi quantità di dati, che presi insieme occupano molto spazio di archiviazione, nell’ordine dei Terabyte, provenienti da più fonti, ma integrabili”.

Altre definizioni date dagli intervistati mostrano un certo scetticismo, oltre che il timore che la raccolta dati possa in qualche modo intaccare la propria privacy o trasformarsi in una forma di potere per grandi player. Big Data? “Qualcuno che raccoglie e archivia i fatti miei” o “L’oro dei giganti del web; quelli che controllano quasi tutto (Google; Microsoft; ecc)”.

La dipendenza dalle piattaforme – commenta Alberto Marinelli, Direttore del Dipartimento di Comunicazione e ricerca sociale, Sapienza Università di Roma è allo stesso tempo una condizione fattuale rispetto alla quale è difficile sottrarsi e un elemento di angoscia per le persone che non hanno alcuna evidenza e certezza rispetto al destino dei dati appropriati dalle big tech companies. Finora il difficile equilibrio ha potuto giovarsi dell’effetto novità, sia sul piano della qualità, della gratuità e dell’efficacia dei servizi offerti sia su quello del loro decisivo impatto positivo nelle diverse condizioni di lavoro e di vita: farsi guidare verso un indirizzo in città, scegliere un alloggio per la vacanza o fare binge watching su una serie Tv sono opportunità alle quali nessuno sente di poter rinunciare. E il livello di consapevolezza che congiunge questi eventi positivi della vita con la cessione di informazioni ai proprietari delle piattaforme non è stato, inizialmente, così forte. Ma ora siamo entrati in una fase evolutiva differente: svanito l’effetto novità si diffonde la consapevolezza di vivere in una platform society. E aumentano le domande che i consumatori/cittadini si pongono rispetto a chi trae vantaggio dai processi di “datificazione” che riguardano ogni aspetto della nostra esperienza. Nei prossimi anni le aziende e le istituzioni pubbliche a livello nazionale e sovranazionale dovranno affrontare queste sfide e trovare un nuovo punto di equilibrio, più rispettoso degli utenti e in grado di trasformare in opportunità pubbliche, condivise quanto finora è stato appropriato esclusivamente da un numero limitato di operatori a livello globale”.

In cosa possono essere davvero utili i Big Data?

Partendo dal legame tra Big Data e intelligenze artificiali e spiegando come questi possano “addestrare” le macchine a svolgere lavori che in precedenza erano prerogativa delle persone, gli italiani pensano che per alcune attività le AI siano già molto più efficienti. E’ il caso, per esempio del trovare il percorso più rapido in città (73% gli italiani a favore delle macchine), investire in borsa (37%), arbitrare una partita di calcio (34%), diagnosticare malattie (29%) o svolgere le faccende domestiche (28%). Resistono invece quali attività per le quali l’uomo viene considerato ancora necessario la scrittura di articoli di giornale (con un 75% convinto che siano meglio le persone delle macchine, in calo rispetto al 2018 del 4%); comporre musica (71%, -6%); presentarci potenziali amici (69%, -5%); selezionare il personale più adeguato per una azienda (65%, -4%); emettere giudizi e sentenze legali (65%, -9%); guidare (56%, -4%).

Quanto è apprezzata l’informazione personalizzata basata su analisi Big Data?

La consapevolezza del ricevere informazioni personalizzate sullo smartphone su un negozio che si stava visitando o sui prodotti in esso disponibile, frutto ovviamente dell’analisi Big Data, è percepita come un qualcosa di sperimentato in modo regolare solo dal 15% degli intervistati, con un 52% al quale “è capitato di provare”. Un 44% delle persone sostiene di essere interessato a questo tipo di servizio, con un incremento del 7% rispetto alla prima edizione della ricerca. A fronte di un 29% di italiani che si sentono del tutto a proprio agio a fronte di informazione personalizzata, c’è un 24% che percepisce una situazione di disagio causato, per alcuni, da “sensazione di essere controllato e spiato” o per il non potersi “sottrarre alla pubblicità, non avere tregua rispetto all’invadenza”.

Quali i timori legati alla tecnologia Big Data?

Anche se si parla tanto di nuove norme e nuove politiche aziendali dei giganti del web, finché useremo i social network i nostri dati personali non saranno al sicuro. 7 italiani su 10 la pensano in questo modo, con un incremento significativo rispetto all’edizione 2018 della ricerca, in particolare per i Millennials (+6%), la Generazione X e le persone con competenze digitali buone (+4%).

Una percezione, quella degli utenti, che evidenzia un rischio reale – commenta Stefano Epifani, Presidente del Digital Transformation Institute ed autore del libro “Sostenibilità Digitale”. “In effetti ci troviamo per la prima volta nella storia dell’uomo di fronte ad alcuni attori – molto pochi e molto grandi – che disponendo delle informazioni degli utenti detengono nelle loro mani un potere enorme. Il potere che deriva dalla conoscenza di abitudini, gusti, intenzioni, convinzioni, modelli di percezione del mondo. E che grazie al quale sono in grado, questi stessi elementi, di influenzarli. Ciò non vuol dire certo che tali attori siano dei “nemici” da combattere, ma senz’altro quella che qualcuno chiama la società delle piattaforme, perché non sviluppi quello che Zuboff definisce il capitalismo di sorveglianza, va ripensata nelle norme, nelle dinamiche, nei principi. Ci troviamo oggi di fronte all’immensa responsabilità di definire dei principi chiave che condizioneranno in maniera determinante la vita delle prossime generazioni. Dobbiamo definire veri e propri principi di sostenibilità digitale che siano utili a disegnare il futuro della rete e con esso quello dell’umanità. I big data rappresentano una preziosissima opportunità per le persone e per le aziende, ma perché l’opportunità si trasformi davvero in un vantaggio concreto per tutte le aziende, e non solo per quelle in grado di generarli, serve grande attenzione rispetto al modo in cui definiremo ciò che è lecito e ciò che non è lecito fare dei dati degli utenti”. 

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