Zootecnia di precisione: i dispositivi digitali indossabili

Nelle stalle, l’impiego di tecnologie digitali ha una lunga storia e sono molti i dispositivi applicati agli animali per monitorarne lo stato, migliorando efficienza, benessere e ambiente: Il caso delle bovine da latte

I dispositivi digitali indossabili, i “wearable device” per dirla con una nota definizione inglese, hanno per l’uomo una breve storia. Qualche anno fa c’erano solo i contapassi, poi sono arrivati i braccialetti per monitorare l’attività fisica, ma solo i più recenti smartwatch, gli orologi intelligenti, possono vantare un vero “dialogo” con chi li indossa. In stalla, invece, i wearable sono entrati da quasi mezzo secolo, in particolare nell’allevamento delle bovine da latte, quando l’internet delle cose (Internet of Things) era una frase priva di significato.

Nelle stalle, ovviamente, non si mettono orologi alle bovine, il loro ritmo circadiano funziona benissimo senza bisogno di lancette o numeri. Sono collari, un tempo dotati di semplici tecnologie per identificare l’animale e aprire contatti magnetici per erogare alimenti nelle mangiatoie.

Oggi allo stesso collare sono applicati transponder in grado di dialogare via Web con computer di stalla e inserire all’occorrenza dati nel cloud. A volte, al posto del collare, si trovano “orecchini” che aggiungono alle loro funzionalità anche quella di geolocalizzazione, importante per gli animali al pascolo, ma anche in una stalla libera, tipologia di allevamento fra le più diffuse. Senza questi strumenti, molti allevamenti avrebbero già dovuto gettare la spugna, impossibilitati a competere in un mercato globale dove anche i centesimi hanno grande valore.

Ma cosa fanno di così straordinario questi wearable animali? Il primo passo è l’identificazione dell’animale, il secondo è il monitorarne l’attività e segnalare ogni anomalia a un sistema di alert affidabile e preciso. Un animale che si muove poco o meno del consueto è indice di una anomalia; può essere una banale infiammazione degli arti o peggio uno stato patologico. Se invece la sua attività è in aumento e si tratta di una femmina, la sua fase estrale potrebbe essere ideale per il concepimento. Se si perde il momento giusto occorre attendere un nuovo ciclo (in media 21 giorni), e la produzione di latte sarà rimandata di un tempo analogo. Importante per l’economia aziendale, ma anche per l’ambiente e questo lo vedremo dopo.

Torniamo al nostro wearable animale: il suo compito non si esaurisce qui. Sarà lui ad aprire i cancelli del robot di mungitura quando la vacca, in piena autonomia, deciderà di farsi mungere. Oppure a negare l’accesso se dalla precedente “seduta” non è trascorso un tempo adeguato.

Mentre la vacca si prende le cure del robot, dal lavaggio delle mammelle al massaggio pre-mungitura, i sensori applicati ai capezzoli esamineranno il latte, misurandone i contenuti in grasso e proteine o altri parametri, come la conducibilità elettrica, per avere conferma della salute della mammella, organo assai delicato e facile preda di patologie, ad esempio le mastiti. Se un solo parametro indica anomalie, quel latte viene immediatamente separato da quello del resto della mandria e l’animale segnalato per le visite sanitarie del caso.

E dove il robot non c’è? Le cose non cambiano di molto. Ci sono gli stessi sensori e gli stessi sistemi di allerta. Le vacche andranno in sala di mungitura a gruppi e sarà l’allevatore ad azionare le singole postazioni di mungitura. Ma il collare continuerà a fare il suo compito, indicando per ogni animale quantità e caratteristiche del latte prodotto. Informazioni che poi saranno preziose per equilibrare la dieta di ogni singolo animale.

Di più, tutti i dati rilevati sull’animale e nel suo ambiente di allevamento dai vari sensori collocati in stalla (anche i parametri di temperatura e umidità hanno importanza) confluiscono nel “sistema” di gestione aziendale per essere poi elaborati e controllati dall’allevatore, all’occorrenza anche su un device portatile, come smartphone o tablet.

All’allevatore si chiede così di interpretare anche il “mestiere” di analista di questa mole di dati, che può essere imponente. Servirà un controllo sugli alert che richiedono un intervento immediato (come l’approssimarsi di un parto, anche questo viene monitorato), ma la routine sarà quella di un controllo quotidiano, come i report su salute o comportamenti anormali (minore attività, ritardi nell’accesso al robot e così via).

Un uso meno frequente sarà quello dei dati sulla qualità del latte e su eventuali anomalie di alcuni parametri nei singoli capi. Ogni due settimane o al massimo una volta al mese si dovranno prendere in esame i parametri produttivi, non solo quanto latte si è prodotto, ma come è stato prodotto, ovvero il tempo fra un parto e l’altro, l’indice di concepimento, il rapporto fra alimenti consumati e latte prodotto. Tutti numeri che il sistema riceve in modo pressoché automatico dal sistema di sensori in stalla.

C’è chi ha voluto valutare la redditività del tempo che l’allevatore impiega nella cura degli animali e quello dedicato all’analisi dei dati. Quest’ultimo sopravanza di gran lunga il primo.

Questo insieme di tecnologie applicate all’allevamento trovano una sintesi nella zootecnia di precisione, una “filosofia” produttiva che sposa efficienza, benessere animale e ambiente. Per l’efficienza basta un numero a indicarne l’importanza: alla fine del secolo scorso si contavano circa 2,7 milioni di bovini da latte. Oggi il loro numero è poco più della metà e il latte prodotto è lo stesso, ma più sano e di migliore qualità.

Per il benessere ci sarebbe molto da dire, ma basta ricordare l’introduzione della mungitura a “self service” con i robot, l’alimentazione personalizzata, la cura puntuale della salute e infine ambienti di allevamento salubri e controllati.

Sull’impatto ambientale parla la riduzione del numero degli animali allevati. Perché una corretta misura di questo valore va fatta per unità di prodotto e non per il numero dei “produttori”. Una vacca inattiva consuma alimenti, che richiedono energia e risorse, e al contempo quella stessa vacca emette gas climalteranti. La stessa quantità di latte prodotta da un minor numero di animali, meglio allevati e quindi più efficienti, ha giocoforza un minore impatto sull’ambiente.

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