PA digitale: cosa migliora e cosa no nei processi organizzativi

La Pubblica Amministrazione, non meno dell’infrastruttura digitale, è un partner abilitante alla digital transformation, poiché favorisce la crescita di competitività di un Paese, e quindi di tutto il sistema produttivo ed è in grado di rendere abili gli attori ad avviare e realizzare processi di trasformazione digitale, offrendo loro soluzioni digitali compatibili e funzionanti e favorendo la partecipazione. Parlo delle imprese (lato offerta ICT e lato domanda) e dei cittadini, naturalmente, che con la PA dialogano quotidianamente.

Le imprese chiedono la digitalizzazione dei processi di interfaccia tra aziende e PA, che, secondo stime dell’Osservatorio Agenda Digitale della School of Management del Politecnico di Milano, porterebbe, se realizzata, a una riduzione dei costi burocratici per le aziende superiore al 30%, con un recupero di produttività di circa 23 miliardi di euro.

Il cittadino, a sua volta, ha il diritto di chiedere semplicità, velocità, sicurezza e trasparenza nell’interazione con i servizi pubblici, laddove la PA deve impegnarsi ad offrire servizi con modalità più moderne e inclusive, digitalizzare i processi, migrare verso infrastrutture tecnologiche più moderne, gestire la cybersecurity e i big data della PA, tutelare adeguatamente la privacy del cittadino, con ovvi, conseguenti risparmi diretti di spesa e maggiori entrate e risorse liberate per nuovi investimenti.

Sto parlando, dunque, di una PA digitale indispensabile, fattore abilitante, appunto, e trainante di una strategia che mira alla trasformazione digitale diffusa con benefici per utenti e mondo produttivo.

Trasformazione digitale nelle PA: come sta andando?

La strategia messa in campo dal Piano Triennale per la Trasformazione Digitale, resa operativa dal Team per la Trasformazione Digitale, che dà attuazione all’Agenda Digitale, affiancando l’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID), sta guidando un percorso che, secondo i dati AGID di fine 2018, sembra dare i primi risultati evidenti, soprattutto in alcuni ambiti:

  • fatturazione elettronica: 106 milioni di fatture elettroniche gestite dal Sistema di Interscambio (SDI);

  • SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale): a partire dal 2016 mostra un trend di crescita costante e, a dicembre 2018, supera di poco i tre milioni di identità che possono utilizzare 4.200 servizi in 4mila Pubbliche Amministrazioni;

  • PagoPA, pagamento elettronico della Pubblica Amministrazione: il 74% (17.187) delle PA e dei gestori di pubblici servizi hanno aderito formalmente;

  • Digital security (CERT-PA), struttura all’interno dell’Agenzia per l’Italia Digitale preposta al trattamento degli incidenti di sicurezza informatica del dominio costituito dalle pubbliche amministrazioni: 2.588 segnalazioni pervenute (dato calcolato dal 1 gennaio 2015);

  • FSE (Fascicolo Sanitario Elettronico), insieme dei dati e documenti digitali di tipo sanitario e socio-sanitario riguardanti il paziente: 12 regioni con Fascicolo Sanitario Elettronico implementato e operativo;

  • Open Data PA: 23.243 dataset pubblicati nel portale dati.gov.it (target 2018 15.000 – targer 2020 25.000), di cui il 59% sono di provenienza dei comuni, 12% regionali, 8% nazionali;

  • Anagrafe Nazionale, banca dati con le informazioni anagrafiche della popolazione residente cui fanno riferimento i Comuni, la Pubblica amministrazione e gestori di pubblici servizi: solo 1.365 comuni subentrati, contro un target 2018 di 7.978.

Miglioramenti sì dunque, in parte già evidenziati dal DESI – Digital Economy and Society Index 2018 – che avverte che l’Italia scala 11 posti in classifica per gli open data, si conferma la 19° posto per i servizi pubblici digitali, ha una disponibilità di servizi eGovernment al di sopra della media UE, è 8° per servizi di sanità digitale e il livello di sviluppo dei servizi rivolti alle imprese si colloca solo leggermente al di sotto della media europea

Le zone d’ombra della digital transformation nella PA

Eppure, da cittadini, da imprenditori, da liberi professionisti, abbiamo l’impressione che molto spesso il processo di digitalizzazione abbia degli intoppi; lo scopriamo quando facciamo una pratica on line, quando ci chiedono un’autocertificazione di troppo, quando non riusciamo a fare una fattura elettronica.

I dati dell’Osservatorio Agenda Digitale della School of Management del Politecnico di Milano, infatti, ci permettono di ragionare sugli elementi frenanti di questo processo, che pur è evidentemente innescato e che sta lavorando soprattutto sulle infrastrutture abilitanti. I Digital Maturity Indexes (DMI), un insieme di indicatori che l’Osservatorio Polimi ha creato per ottenere una maggiore efficacia del DESI, colloca l’Italia 22° posto su 28 Paesi europei per gli sforzi fatti nell’attuazione della propria Agenda Digitale (con un punteggio di 52,5 su 100, contro una media europea pari a 61,6) e al 25esimo posto per risultati raggiunti (36,4 – media europea: 46,9). Perché questi dati negativi?

L’osservatorio ammette che il nostro Paese ha fatto passi da giganti in termini di open data, si è allineata al resto d’Europa nelle infrastrutture ha migliorano i servizi pubblici digitali offerti, ma rispetto allo switch-off di servizi pubblici ci sono ancora degli importanti ritardi: nel 2018, solo il 12% dei 163 Comuni intervistati dall’Osservatorio ha smesso di erogare in modalità tradizionale ripensandone la gestione esclusivamente attraverso canali digitali. Un ulteriore 21% ha in cantiere progetti di switch-off per il 2019, mentre oltre il 65% dei Comuni non ha ancora fatto né intende attivare iniziative a breve. Inoltre, evidenzia Polimi, sono insufficienti le azioni per rendere più digitali i cittadini italiani: l’Italia è ancora terzultima in Europa per capacità di gestire file e informazioni digitali (solo il 58% degli italiani lo sa fare, contro il 74% degli europei) e solo il 48% degli italiani sa creare o modificare contenuti digitali contro il 59% degli europei. E la mancanza di competenze digitali di base degli italiani di certo non aiuta.

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