Italiani e Sostenibilità Digitale, la ricerca della Fondazione DTI, al secondo appuntamento: qual è il punto di vista degli italiani sullo smart living?

Si è svolto ieri il webinar di presentazione della seconda parte dei dati della ricerca "Italiani e Sostenibilità Digitale: cosa ne sanno, cosa ne pensano", realizzata dal Digital Transformation Institute, questa volta incentrati sul tema dello Smart Living

Quali sono le relazioni tra tecnologia e sostenibilità nella percezione degli italiani su temi come il commercio elettronico, il turismo, la didattica a distanza ed il telelavoro? Insomma, qual è il loro punto di vista sullo smart living?

Qual è, in sostanza, l’atteggiamento degli italiani rispetto a quegli stili di vita così profondamente rivoluzionati nel periodo della pandemia, e che oggi rappresentano il centro di quella nuova normalità che nei prossimi anni ridisegnerà le nostre esistenze, proprio intorno ai due pilastri del digitale e della sostenibilità?

La risposta a questa domanda è stata fornita ieri, nel webinar moderato dal giornalista Andrea Frollà, attraverso la presentazione della seconda parte dei dati della ricerca Italiani e Sostenibilità Digitale: cosa ne sanno, cosa ne pensano, realizzata dal Digital Transformation Institute.

Ad aprire il webinar, un keynote di Beppe Carrella a proposito dei paradossi della sostenibilità digitale. “Nessuno lava la macchina a noleggio, semplicemente perché non è la sua. Ho l’impressione che questo sia il più grande ostacolo per la sostenibilità. Nel lavoro che facciamo, nelle nostre attività, pensiamo che il futuro, in fondo, non sia qualcosa che ci appartiene: Non ce ne prendiamo cura perché crediamo che prima o poi qualcuno lo farà al posto nostro. Questo è un paradosso: nessuno si occuperà del futuro, se non cominciamo a farlo noi stessi. In questo contesto, le tecnologie digitali sono ben viste, perché pensiamo che da sole possano garantire un mondo più sostenibile. Non è così: se queste non sono inserite in un contesto sociale in grado di fare la differenza, riusciremo solo a fare dei piccoli passi, senza effettivamente andare avanti. A questo pensiero, a proposito del fatto che il digitale può risolvere da solo i problemi, abbiamo dato un nome molto preciso: Tossico-dipendenza digitale. In realtà, il motore del progresso, dell’innovazione, è la paura. È la paura, positiva, del non avere un domani né per noi né per i nostri figli che ci può salvare, non la sola tecnologia.

La tecnologia, quindi, è lo strumento che può abilitare la sostenibilità, ma è fondamentale, prima di tutto, il contesto sociale che ne orienta l’utilizzo verso criteri e obiettivi di sostenibilità, che è poi il cuore del messaggio del Manifesto per la Sostenibilità Digitale pubblicato dal Digital Transformation Institute.

I punti di partenza però, in questo senso, non sono confortanti. Infatti, il 65% degli italiani ritiene che la tecnologia sia fonte di ineguaglianze, ingiustizia sociale e perdita di posti di lavoro. Questo livello di diffidenza, unito alla scarsa competenza digitale esistente nel nostro Paese, costituisce una coppia di ostacoli particolarmente difficili da superare.

La frequenza d’uso delle tecnologie, però, aumenta all’aumentare delle competenze degli utenti: sono infatti il 55% gli utenti regolari di strumenti di smart working e di didattica digitale con un livello alto di competenza digitale; tuttavia, guardando a coloro che hanno competenze digitali più basse, la percentuale degli utenti regolari scende al 22%. Stesso discorso per quanto riguarda i servizi legati al commercio e al turismo: sono il 37% gli utenti regolari con un livello alto di competenza digitale, rispetto al 15% di quelli con competenza digitale bassa.

A questo quadro va aggiunto un ulteriore tassello, dato dal fatto che quel 65% degli italiani che vede nella tecnologia una minaccia, se ne allontana: il 71% degli utenti che vede nei servizi digitali di supporto allo studio ed al lavoro una minaccia la usa raramente o, pur conoscendola, non la utilizza; percentuale che scende al 47% nel caso di coloro che invece vedono la tecnologia applicata al lavoro ed allo studio come un’opportunità. Dati simili quelli relativi a commercio e turismo: sono solo il 20% gli italiani che vivono la tecnologia come una minaccia ad usare servizi digitali per il commercio ed il turismo, contro un 35% di essi che li vive come un’opportunità e ne fa quindi un utilizzo regolare.

Questi daticommenta Stefano Epifani, Presidente della Fondazione Digital Transformation Institute ed autore del libro Sostenibilità Digitale, dedicato a questi temi – letti in un periodo come quello che stiamo vivendo, nel quale l’uso degli strumenti digitali è diventato centrale per moltissime attività quotidiane, si traducono in un fattore di sostanziale esclusione sociale, con le conseguenze in termini di sostenibilità che è facile immaginare. C’è poi da considerare che, parlando appunto di sostenibilità, l’attenzione verso questo tema, al di là delle posizioni puramente ideologiche, è comunque bassissima. Basti pensare ai servizi on-line nati in questi anni per supportare il commercio e il turismo sostenibili: tra quelli che ne conoscono l’esistenza, il 77% degli utenti con alta competenza digitale e ben il 91% di quelli con bassa competenza digitale non li usa o li usa raramente. Insomma: la strada da fare verso un uso consapevole dei servizi e degli strumenti che ci offre la rete a supporto della sostenibilità è ancora lunga ed impervia”.

Telelavoro e Teledidattica: cosa ne pensano gli italiani

La teledidattica e il lavoro da remoto sono stati al centro del dibattito di questi mesi, quando hanno permesso, nel periodo più acuto dell’emergenza pandemica, la continuità dell’attività lavorativa e di formazione. Guardando alla didattica a distanza – soprattutto se adottata dagli adulti – è complessivamente buono il giudizio generale degli italiani evidenziato dai dati della ricerca, con il solo 18% degli intervistati che la ritiene inutile per la formazione professionale (percentuale che sale però al 26% guardando alle scuole superiori ed alle università, ed al 36% per le scuole elementari e medie).

Quindi, come evidenziato dai dati, c’è un livello di soddisfazione rispetto alla formazione a distanza che decresce al diminuire dell’età del fruitore. Come interpretare questa tendenza? “Lo vediamo spesso, c’è effettivamente una correlazione inversa tra età e livello di soddisfazione rispetto alle nuove tecnologie commenta Stefano Denicolai, Professore di Innovation management all’Università di Pavia e membro del Comitato Scientifico della Fondazione– Tra i motivi, credo ci sia una questione di maturità e di distanza cognitiva rispetto all’argomento. Da un lato, infatti, i più giovani sono più sensibili al tema, lo conoscono di più, hanno in media più dimestichezza con il digitale, e di conseguenza sono più esigenti. I meno giovani e chi fa formazione professionale nota meno questo, un po’ per una cultura digitale leggermente meno sviluppata, ma anche e soprattutto perché il mondo della formazione professionale ed aziendale già faceva molta formazione a distanza, e di conseguenza hanno avuto una percezione distorta del fatto che per loro era cambiato poco, perché già lo facevano e lo facevano anche bene. In realtà, però, non sapevano farla bene, ma non se ne rendevano conto perché lo standard era relativamente basso, mentre oggi il mondo ci ha portato verso standard più alti. Quindi credo che i problemi, tra le diverse fasce d’età, siano gli stessi: quello che cambia è la distanza cognitiva, il modo di approcciarsi e il livello di maturità digitale.

Senza dubbio, però, “questo periodo di lavoro e di formazione a distanza ha costituito un vero elemento di rivoluzione, e una grande opportunità per progettisti, architetti, designer e urbanisti: quella di ripensare i nostri spazi – spiega Elisabetta Cianfanelli, professoressa di Disegno Industriale all’Università degli studi di Firenze ed anch’essa membro del Comitato Scientifico della Fondazione – Questo a partire dalle case che, in precedenza, molto spesso hanno rinunciato ad avere piccoli spazi esterni, perché poco ‘vissute’ per motivi lavorativi. Allo stesso modo, occorre cercare di capire come dovranno essere ripensate le nostre città, sulla base delle nuove necessità. Durante la pandemia, ad esempio, abbiamo visto come molti piccoli borghi d’Italia siano tornati ad essere abitati, grazie a questo nuovo processo di ‘nomadismo digitale’, dato dalla possibilità di allontanarsi dalle città che ospitavano le sedi lavorative, scolastiche o universitarie. In questo contesto, la tecnologia dovrebbe essere a supporto nella costruzione di modelli di vita più sostenibili, e questo, dal mio punto di vista, è un momento molto favorevole”.

Per quanto riguarda il lavoro a distanza, invece, questo è percepito come un vantaggio per il 61% degli italiani, nonostante il 24% ritiene che vada abbandonato una volta usciti dall’emergenza pandemica.

Come fare in modo che la tecnologia possa supportare una modalità di lavoro che vada incontro alle esigenze e alle necessità dei lavoratori, alla luce di questi dati? “Con l’avvento della pandemia, nella nostra azienda, abbiamo messo velocemente in piedi la modalità di smart working, mettendo tutti i dipendenti in condizione di poter lavorare in totale sicurezza racconta Michele Moretti, CEO di Fincons Group, azienda partner della Fondazione – In un primo momento si sono apprezzati tutti i vantaggi di questa modalità, senza particolari problemi. Dopo un anno di smart working emergenziale, però, sono emerse alcune criticità: in particolare, le nostre persone lamentavano la difficoltà di separare la vita lavorativa e quella personale, la difficoltà nel gestire le relazioni di team, e una percezione di isolamento verso l’organizzazione. Credo che questa esperienza ci stia insegnando che la strada vincente è quella di mettere insieme due modalità di lavoro, a distanza e in presenza, arrivando a un giusto bilanciamento tra le necessità personali e professionali”.

Dati interessanti emergono, inoltre, dalla percezione degli italiani rispetto ai vantaggi dell’utilizzo di strumenti di telelavoro e teledidattica in funzione della sostenibilità ambientale. Infatti, la risposta alla domanda se utilizzare strumenti di formazione a distanza sia un vantaggio per l’ambiente è positiva per il 76% degli utenti che ritengono il cambiamento climatico e l’inquinamento dei problemi prioritari, mentre lo è per il 64% di quanti ritengono tali problemi come secondari. Uno scarto minore si rileva, invece, per quanto riguarda il lavoro: il telelavoro ha infatti effetti positivi sull’ambiente per il 68% di quanti concepiscono il cambiamento climatico e l’inquinamento come problemi prioritari, contro un 61% di coloro i quali li ritengono dei problemi secondari.

Guardando però alla percezione degli intervistati rispetto alla sostenibilità sociale dell’utilizzo di questi strumenti, i dati della ricerca evidenziano delle risposte contradditorie, soprattutto nel campo del lavoro a distanza. Infatti, quest’ultimo impatta negativamente in termini di distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro (work life balance) per ben il 78% degli intervistati, in contrasto con quel 61% degli italiani per i quali il lavoro a distanza è sostanzialmente un vantaggio.

Tra gli aspetti positivi del lavoro a distanza, però, c’è sicuramente quello – come evidenziato anche dalla Professoressa Cianfanelli – di contribuire a ripopolare zone in precedenza maggiormente ai “margini”.

Aspetto, questo, del tutto in linea con i criteri di sostenibilità. “La tecnologia, nel lavoro a distanza, deve essere utilizzata per abilitare la collaborazione, la produttività, la creatività, per rendere evidente il raggiungimento di obiettivi lavorativi e, in un’ottica di sostenibilità, può aiutare a coniugare questi aspetti con il contributo al raggiungimento di obiettivi di sostenibilità, in termini di impatto positivo generato, dal punto di vista ambientale, sociale ed economico, dalle sessioni di lavoro agile spiega Emanuele Spampinato, Presidente e Amministratore Delegato di Etna Hitech e membro del Comitato d’Indirizzo del Digital Transformation Institute Molti aspetti possono essere tracciati, a partire dalla riduzione degli spostamenti, fino alla frequentazione di ambienti di co-working e ambienti innovativi, magari realizzati ad hoc in zone svantaggiate: l’impatto positivo, in questo senso, può essere quello di portare i lavoratori a frequentare questi ambienti, quartieri, borghi, che altrimenti continuerebbero ad essere svantaggiati. E questi impatti positivi, una volta misurati e opportunamente incentivati, potrebbero determinare premialità sia per i lavoratori stessi, che per le imprese”.

Stessa apparente confusione emerge sul tema della parità di genere: l’80% degli intervistati sostiene infatti che il lavoro a distanza possa favorire la parità di genere, ma nello stesso tempo il 58% del campione ritiene che il lavoro a distanza sia svantaggioso soprattutto per le donne.

Quindi, sulla base di questi dati, il lavoro a distanza è un vantaggio o uno svantaggio per la parità di genere? “Una valutazione anche soggettiva è molto difficile, perché questo è un tema con interpretazioni molto soggettive spiega Lara Lazzeroni, professoressa di Diritto del Lavoro all’Università di Siena e componente del Comitato Scientifico della Fondazione – C’è sicuramente un problema di equilibri, tra carichi familiari e carichi lavorativi, che determina il modo di pensare al lavoro a distanza come un vantaggio piuttosto che come uno svantaggio. Nel tempo, potrebbe costituire uno svantaggio laddove questo meccanismo vada a cristallizzare quella visione tradizionale dei ruoli familiari, in modo diversificato tra i due generi. E quindi i dati sono solo apparentemente contraddittori. Quello che si osserva, in questo senso, è che il tema della tenuta del lavoro a distanza mantiene un equilibrio soltanto se c’è un equilibrio anche nella gestione dei carichi familiari: laddove questo si perde, le donne rischiano di perdere anche la propria produttività sul lavoro. In questo senso, è necessario pensare ad un modello di smart working che consenta di scegliere dei tempi di alternanza casa-lavoro, a meccanismi di coordinamento più lineari con l’azienda che favoriscano la partecipazione delle donne anche alla dimensione sindacale, informativa dell’azienda, e poi all’adozione di azioni positive per cercare di valutare i bisogni di chi fa lavoro a distanza, e per cercare di favorire, prima di tutto, coloro che hanno effettivamente bisogni di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”.

Questi contrasti non devono stupire più di tanto afferma Stefano Epifanisoprattutto se comparati con i dati che guardano alla capacità dei nostri connazionali di coniugare i punti di vista puramente ideologici con le loro conseguenze pratiche. Siamo in una fase nella quale il livello di maturità sui temi della sostenibilità è molto basso e quello sulle relazioni del tema con il digitale lo è ancora di più. Ciò genera comportamenti in contrasto con le convinzioni in quanto non si comprendono appieno le conseguenze di ciò che si fa, né tantomeno il collegamento tra le proprie azioni e le dinamiche generali di sostenibilità. E se ciò si vede con studio e lavoro appare con ancora maggior forza per commercio e turismo”.

Acquisti e turismo: più sostenibili grazie al digitale?

Stesse contraddizioni emergono, quindi, dalla presentazione dei dati relativi ad altri due aspetti fondamentali dello smart living, quello del commercio elettronico e del turismo sostenibile. A partire da quest’ultimo, i contrasti diventano subito evidenti quando si chiede agli italiani un punto di vista sul ruolo delle tecnologie come strumento di supporto: se, infatti, l’82% degli intervistati ritiene che le applicazioni di prenotazione on-line – concentrando l’attenzione del turista sui luoghi più popolari – favoriscano gli operatori più grandi e le località più conosciute, l’89% degli stessi intervistati è però d’accordo sul fatto che le stesse applicazioni favoriscano gli operatori più piccoli, consentendo di scoprire mete alternative.

Il turismo parte sempre da una ispirazione. La tecnologia, in questo momento, è sempre più determinante nel condizionare questo processo di ispirazione, soprattutto dal punto di vista informativo, nel ‘consigliare’, come nel caso del passaparola digitale legato all’ambito social spiega Gianluigi Tiddia, responsabile del canale sul Turismo Sostenibile di Tech Economy 2030 Tuttavia, si sta iniziando sempre più a trovare interessante l’utilizzo di strumenti meno visibili, ma in grado di aiutarci nei percorsi di ispirazione, e poi di fruizione, tramite quelle ‘profilazioni intelligenti’ che ci consentono di avvicinarci ad una scelta turistica più consapevole, anche in termini di sostenibilità. Questa tecnologia può certamente aiutare molto le piccole destinazioni nel riuscire a trovare una profilazione intelligente, guidata, in un ambiente immersivo nel quale però emergano elementi tipici della relazione umana: è infatti la necessità di relazione umana diretta, o mediata dagli strumenti digitali, che ridisegna l’esperienza turistica e rappresenta la base per il turismo di prossimità.

Tuttavia, solo il 16% degli utenti che conoscono piattaforme volte a supportare il turismo sostenibile ne fanno effettivamente un uso regolare: in sostanza, anche molti di coloro che dichiarano la sostenibilità come un valore primario, non utilizzano come potrebbero il digitale per rendere sostenibile il proprio viaggio.

Stesso discorso, come detto, vale anche per le risposte relative al commercio elettronico. Per l’85% degli italiani, infatti, questo è destinato a distruggere i piccoli negozi, ma per il 79% degli stessi è anche un’opportunità per quei piccoli negozi che sapranno adeguarsi.

Il commercio elettronico può senza dubbio avere un impatto negativo sui formati tradizionali di vendita, ed è per questo che è necessario che questi ultimi cambino, si evolvanocommenta Luciano Gaiotti, Responsabile Innovazione di ConfcommercioGuardando, in questo senso, proprio ai più piccoli negozi, questi hanno la possibilità di trovare nuove vie di crescita, sfruttando le nuove opportunità fornite non dal solo commercio elettronico, ma dal digitale in generale. In questo contesto, i piccoli negozi che non cambieranno, rischiano di avere una ‘data di scadenza’; viceversa, se si adeguano ai nuovi trend, tra i quali l’utilizzo del digitale, passando da una logica monocanale ad una omnichannel, sfruttando sia il canale fisico del negozio che il canale digitale, potranno avere un futuro”.

Contrastanti, in questo senso, sono anche le opinioni circa la percezione rispetto al ruolo del commercio elettronico in relazione all’ambiente: se per l’83% degli intervistati, permettendo di evitare gli spostamenti, genera un impatto positivo sull’ambiente, allo stesso tempo, per il 75% degli stessi, aumentando il numero di spedizioni e di pacchi in circolazione, rappresenta invece una minaccia per l’ambiente.

Insomma conclude Epifaniil commercio elettronico fa bene all’ambiente ma anche no. E lo stesso vale per le tecnologie per il turismo. Mancando una visione sistemica dei problemi, che sono problemi peraltro molto complessi, è difficile per il cittadino costruirsi un quadro ed agire di conseguenza. Il risultato è che ci si muove sulla base di sollecitazioni puntuali, variando i propri comportamenti in funzione di princìpi di utilità diretta e contingente. Tanto che, ad esempio, su un 92% di italiani che ritiene il commercio elettronico utile per il cittadino, solo un quinto degli intervistati è in grado di correlare tale utilità percepita con le proprie convinzioni relative al collegamento tra commercio elettronico e inquinamento. Che si parli di didattica a distanza o di telelavoro, di turismo sostenibile o di commercio elettronico, la sfida della sostenibilità è legata a doppio filo alla nostra capacità di sfruttare correttamente il digitale ed inquadrarne il ruolo nello sviluppo del Paese. Con Next Generation EU abbiamo l’opportunità di promuovere questo concetto e farne una leva per costruire la nuova normalità in maniera tale che sia sostenibile by default. Un’opportunità che non possiamo permetterci di perdere.

“Purtroppo ciò che emerge non è molto confortante”, conclude Luciano Guglielmi – coordinatore del Comitato di Indirizzo della Fondazione Digital Transformation Institute. “Come stiamo riscontrando molto spesso analizzando i dati in nostro possesso la questione si sposta sempre sulla percentuale di cultura tecnologica e digitale posseduta dal cittadino, che purtroppo non è scindibile dalla capacità del nostro apparato formativo di farla crescere e di sviluppare le infrastrutture (leggi accesso alla rete e incentivi all’acquisto di dotazioni informatiche): infrastrutture che possano davvero garantire parità di accesso a quella rete che diventa sempre di più strumento per l’esercizio di diritti. Ci si riempie la bocca con il termine ‘innovazione digitale’, vantiamo – sia nel pubblico che nel privato – fior fiore di presunti innovatori, ma alla resa dei conti ci ritroviamo con una popolazione che in buona parte deve ancora alfabetizzarsi a livello tecnologico, ancora prima di assumere consapevolezza degli impatti del digitale. Non è che, oltre ad uno sforzo coordinato del governo per incrementare infrastrutture e servizi, serva anche un ‘Maestro Manzi 4.0’ dedicato alle tecnologie? Alla fin fine per ottenere risultati tangibili occorre sempre partire dalla competenza, oltre che dalla conoscenza.”

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