Rapporto Ispra: l’Italia ha adottato lo sviluppo sostenibile, ma la svolta è digitale

Il disaccoppiamento fra Pil, consumo energetico e materie prime è un segnale importante. Ma, secondo il Rapporto Ispra, per imprimere una vera svolta, bisogna scommettere su rinnovabili e sostenibilità digitale. Ecco com'è possibile migliorare l’ambiente italiano

Immagine distribuita da Stanley Picker Gallery con licenza CCO

Nell’ultimo trentennio le emissioni di gas serra prodotte dall’Italia si sono ridotte di oltre un quarto rispetto al 1990, ma non è ancora sufficiente. Nello stesso arco temporale, anche foreste e suoli hanno registrato un aumento dell’assorbimento della quantità di anidride carbonica, il più diffuso gas climalterante, grazie agli investimenti nell’efficientamento energetico dei grandi utilizzatori, contribuendo così in modo significativo a combattere i cambiamenti climatici.

Ma si deve fare di più. Il varo del programma Next Generation EU in Europa, volto ad accelerare la transizione ecologica, offre finalmente le risorse necessarie per gli investimenti, anche in queste tragiche settimane in cui l’Eurozona si trova alla canna del gas, dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin. Di questo programma fa parte il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) che costituisce un’ineludibile occasione di sviluppo e rilancio per il nostro Paese. Ma si deve e si può fare uno scatto in avanti. “Il 95 percento dell’energia elettrica in California è stato prodotto da fonti rinnovabili”, commenta Leonardo Becchetti, economista italiano, ordinario di Economia Politica all’Università di Roma Tor Vergata: “Molte aziende italiane si sono rese da tempo autosufficienti con pannelli sopra i propri capannoni. E molti cittadini hanno auto ibride, plug-in o elettriche. Non stiamo parlando di Marte, ma di situazioni realizzate e realizzabili”.

Inoltre, proprio “la guerra deve accelerare la transizione ecologica”, mette in guardia Becchetti, “che è una soluzione oggi, non nel medio periodo”, Infatti, sole e vento forniscono ancora solo il 2,5% dell’energia di cui abbiamo bisogno. “Le decisioni più urgenti che deve prendere il governo per aiutare la transizione sono le semplificazioni nell’installazione degli impianti, agevolazioni con credito d’imposta per le aziende che salvano la loro posizione competitiva mettendo i pannelli sui propri capannoni e un sistema incentivante pari o superiore a quello esistente per la nascita di comunità energetiche”, conclude Becchetti.

Rapporto Ispra: Italia ha fatto un pezzo di strada nella direzione giusta

Nel consumo di suolo, nell’impatto dell’agricoltura e delle specie esotiche invasive, nelle emissioni di gas serra dei trasporti e del settore civile, nelle condizioni del mare o di molti ambienti di acqua dolce, il rapporto Ispra fotografa passi in avanti significativi.

Le emissioni di gas serra, e dell’inquinamento in generale, sono diminuite grazie all’espansione costante dei boschi e all’aumento delle aree protette. Dal secondo dopoguerra ad oggi, infatti, le foreste italiane sono passate da 5,6 a 11,1 milioni di ettari.

Secondo il Rapporto Ispra, a partire dagli ultimi anni, il “disaccoppiamento” fra crescita economica e uso di energia e materie prime sottolinea che l’Italia va nella giusta direzione. All’aumento del Pil, corrisponde la diminuzione del consumo energetico. Significa che, finalmente, abbiamo imboccato lo “sviluppo sostenibile”.

Gli ostacoli allo sviluppo sostenibile: L’Italia è un Paese complesso

“Fin dalla protostoria, sulla matrice ambientale originaria si sono innestate moltissime trasformazioni legate soprattutto allo sfruttamento agricolo e pastorale, dai disboscamenti dei primi agricoltori di settemila anni fa alle bonifiche delle paludi nel Novecento, ma anche alla regimazione dei corsi d’acqua e allo sfruttamento delle risorse minerarie. Anche l’agricoltura, l’attività che più di ogni altra ha segnato il territorio, è caratterizzata proprio da una diversità di colture e di modalità di conduzione che non ha uguali in Europa”, scrive il Rapporto Ispra, per sottolineare le difficoltà legate alla complessità italiana.

In Italia l’insediamento capillare nel territorio da parte di una popolazione molto numerosa, di fatto, non ha lasciato alcun angolo del Paese nelle condizioni originarie. Anche nei luoghi apparentemente più “naturali” è forte l’impronta dell’uomo. Dunque, gli italiani hanno forse disperso il capitale naturale, ma hanno saputo realizzare alcuni paesaggi fra i più belli e ammirati del mondo, dimostrando che è possibile, e non è pura utopia, la convivenza sostenibile tra uomo e ambiente.

L’Italia è divisa in due

Un’altra difficoltà è l’esistenza di due Italia. Da una parte, quella delle pianure, delle coste e dei fondovalle (pari a un quarto del nostro territorio, motivo per cui siamo dipendenti dall’importazione di grano eccetera); dall’altra, quella delle colline e delle montagne, ovvero i restanti tre quarti dell’Italia.

Nel quarto del territorio si concentrano:

  • il 75% delle aree costruite;
  • la stragrande maggioranza delle attività produttive;
  • la quasi totalità dell’agricoltura e dell’allevamento intensivi;
  • il consumo di suolo;
  • la distruzione e frammentazione degli habitat naturali;
  • l’inquinamento;
  • la crisi della biodiversità.

La seconda Italia è quella delle aree interne, caratterizzata da:

  • popolamento scarso e sparso, se non in fase di abbandono;
  • modeste attività produttive di ogni tipo;
  • ritorno dei boschi che fanno dell’Italia, con quasi il 40% di superficie boschiva, uno dei Paesi più verdi d’Europa;
  • più boschi significa anche più biodiversità, aree protette, processi di ricostituzione del capitale naturale.

Circa i tre quarti dei cambiamenti d’uso del suolo fra il 1960 e il 2018 sono dovuti alla perdita di aree agricole:

  • a vantaggio dell’urbanizzazione nella “prima” Italia;
  • per abbandono e rinaturalizzazione nella “seconda”.

La grande metamorfosi del paesaggio italiano (nel trentennio 1960-1990, oltre l’80% delle trasformazioni; dopo il 1990 per l’urbanizzazione) è dunque il risultato di un equilibrio complesso, spesso senza una visione organica e un’adeguata pianificazione del territorio, tra le necessità di una società che evolve e la tutela e la manutenzione di un territorio che è patrimonio storico, culturale, sociale, economico ed ambientale.

La buona notizia, però, è che fra il 2010 e il 2019 entrambe le impronte (sia quella materiale che di carbonio, che stimano il contributo a livello globale delle attività di consumo e investimento di ogni italiano all’uso di risorse naturali ed emissioni di CO2) sono scese di quasi il 30%, in parte per il rallentamento dell’economia e in parte per l’aumento dell’efficienza dei processi produttivi. Nel 2019, l’impronta materiale di ogni italiano è stata pari a 11 tonnellate e l’impronta di carbonio a 6,1 tonnellate di anidride carbonica (rispetto alla media europea, che è pari a 14,5 tonnellate per l’impronta materiale e 6,7 tonnellate per l’impronta di carbonio).

La notizia meno positiva è che nel decennio considerato è sceso il PIL. L’impronta ecologica complessiva si è trasferita all’estero, da dove importiamo tanti beni e servizi e semilavorati.

In Italia la transizione ecologica richiede grandi passi avanti:

  • nella circolarità delle risorse materiali (economia circolare sostenibile);
  • nella riconversione del sistema energetico (abbandono del gas russo per abbracciare le rinnovabili eccetera);
  • nell’intervento capillare in ogni fase delle filiere produttive (con supply chain digitali e sostenibili).

La transizione energetica

Il fabbisogno di energia, in calo già dal 2005, è dovuto al fenomeno della industrializzazione. I consumi industriali sono scesi del 29,2%, ma quelli del settore civile sono aumentati del 21,3% (la digitalizzazione consuma elettricità che dovrebbe essere prodotta con energie rinnovabili o comunque azzerando la produzione di CO2) e quelli per i trasporti dell’8,8%.

Italia ed Europa stanno facendo la loro parte, grazie al Green Deal e alla decisione di azzerare le emissioni dal 2050. Ma il clima è uno solo, e lo sforzo deve essere globale. L’Italia, che è al centro del bacino del Mediterraneo, subisce l’impatto dei cambiamenti climatici più intenso e potenzialmente disastroso a causa dell’alta vulnerabilità dell’area ai seguenti fattori:

  • scarsità di acqua (l’allungamento dei periodi di siccità è evidente: questo inverno al Nord sono stati superati i 110 giorni consecutivi di siccità);
  • declino della biodiversità;
  • incremento del dissesto del territorio;
  • erosione costiera (l’Italia ha perso 5 milioni di metri quadri di spiagge).

Ciò produrrà ripercussioni significative sul benessere della popolazione e sull’economia del nostro paese. I modelli climatologici prevedono variazioni importanti per gli estremi di temperatura, riduzione dei giorni con gelo e aumento delle notti tropicali, delle giornate estive e delle ondate di calore, oltre a una concentrazione delle precipitazioni in eventi intensi e meno frequenti, l’allungamento dei periodi di siccità, mentre i ghiacciai arretrano, e il livello del mare sale a ritmo lento ma inesorabile.

Sul fronte climatico, le città sono sia fonte di elevate emissioni di gas serra (mobilità, attività produttive, riscaldamento/raffrescamento degli edifici), ma anche vittime del cambiamento del clima che spesso si innesca su criticità precedenti.

In questo ambito, la sostenibilità digitale può contribuire con il ricorso massiccio alle fonti rinnovabili, ai mezzi di trasporto (elettrici e ad idrogeno), alle self-driving car (che avranno una guida più efficiente e meno inquinante), agli Smart building più efficienti in termini energetici. Invece, per ridurre lo stress da caldo eccessivo e gli effetti dell’isola di calore urbano, bisogna aumentare il verde pubblico e privato (condomini più green), migliorando il clima degli ambienti chiusi, ma anche restituendo al suolo la sua naturale permeabilità per limitare gli effetti delle piogge (e costruire pozzi e invasi, per mitigare l’impatto della siccità).

Fonti rinnovabili: la biomassa

Nel 2019, l’energia prodotta da biomasse legnose ha fornito 15,4 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (Mtep), pari al 10,2% della fornitura totale di energia (150,2 Mtep) e al 44% del totale da fonti rinnovabili. Nel complesso costituiscono il 23% della fornitura totale di energia.

La biomassa – ogni forma di materiale biologico derivante direttamente o indirettamente dalla fotosintesi – è un processo che consente alle piante e alle alghe di:

  • assorbire anidride carbonica (CO2) dall’atmosfera;
  • grazie alla clorofilla, di sfruttare l’energia luminosa e fissare il carbonio contenuto nella CO2 nella materia biologica di foglie, rami, fusto e radici;
  • fornisce il riscaldamento e contribuisce alla produzione di prodotti legnosi (pannelli di legno, legno segato, carta).

Ma la combustione della biomassa genera polveri sottili (PM10 e PM2,5) che diminuiscono la qualità dell’aria. Nel 2019, le emissioni di PM10 derivanti dall’uso della biomassa per il riscaldamento domestico sono state pari al 53,5% del totale. PM10 e PM2,5 da biossido di azoto e il benzo(a)pirene superano i valori limite di legge.  La sostenibilità digitale significa, ad esempio, adottare termostati Smart e passare ad apparecchi di combustione con tecnologie più evolute.

La nostra economia consuma meno energia ed emette meno gas serra rispetto al 2005

Il fabbisogno energetico nazionale è salito quasi del 30% dal 1990 al 2005, in sintonia con l’aumento del PIL. Per fortuna, l’aumento delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica nel 2019 ha ridotto il fabbisogno energetico del 18% rispetto al 2005. A parità di produzione, la nostra economia consuma meno energia ed emette meno gas serra rispetto al 2005.

Nel 2020 l’Italia ha adottato un Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC) che ha i seguenti obiettivi:

  • l’aumento delle rinnovabili;
  • la riduzione dei consumi energetici e delle emissioni di gas serra, in linea con gli obiettivi dell’Unione Europea.

Ma l’attuazione del PNIEC non è sufficiente a conseguire i nuovi obiettivi stabiliti a livello europeo per il 2030, che richiedono di ridurre le emissioni di oltre il 50% nel 2030 e di quasi il 65% nel 2050 rispetto al 2005.

Energia da fonti rinnovabili

Dal 2005, è salito l’uso di consumi energetici da fonti rinnovabili, riducendo i consumi da combustibili solidi e petroliferi. Nel 2019 i consumi energetici da fonti fossili (petroliferi e gas naturale) ammontavano al 74%, in caduta verticale rispetto all’81,3% del 2005. Anche i combustibili solidi sono da quasi il 9% a poco più del 4% dei consumi totali.

Le fonti rinnovabili sono passate dal 7,4% nel 2005 al 19% nel 2019. I consumi da fonti rinnovabili dal 2005 al 2019 sono più che raddoppiati, passando da 14,1 a 29,5 Mtep. Nel 2019 il consumo di energia da fonti rinnovabili è stato del 19%, superiore all’obiettivo del 2020 (17%).

La fonte idroelettrica spicca tra le fonti rinnovabili tradizionalmente più diffuse in Italia, e costituisce circa il 14% dei consumi energetici da rinnovabili. La geotermia svolge un ruolo importante fin dagli anni ’90. La bioenergia (94% da biomasse e per la restante quota da rifiuti) nel 2019 sfiora quasi il 44% dei consumi rinnovabili. L’eolico e il fotovoltaico, dal 2005 in ascesa, nel 2019 costituivano il 13,4% del consumo da energia rinnovabile.

L’elettrificazione dei consumi finali dell’industria italiana aumenta dal 1990, in accelerazione dal 2005: è tra i più elevati in Europa, con il 41,2% nel 2019. I consumi elettrici sono passati da meno del 18% nel 1990 al 22,2% nel 2019.

A parità di PIL, il sistema produttivo nazionale consuma quasi il 5% in meno di energia di quello tedesco e quasi il 16% in meno di quello francese.

Il disaccoppiamento diventa particolarmente evidente nel periodo dal 2005 al 2019:

  • il rapporto tra emissioni e consumo di energia (intensità emissiva per unità di energia) si riduce del 12%;
  • il rapporto tra emissioni e PIL (intensità emissiva per ricchezza prodotta) si riduce del 28,5%;
  • il rapporto tra consumo di energia e PIL (intensità di consumo energetico) diminuisce del 18,7%.

Nel 2019, i dati mostrano una diminuzione delle emissioni di gas serra del 19% rispetto al 1990, passando da 519 milioni di tonnellate di anidride carbonica equivalente a 418 milioni, e del 2,4% rispetto all’anno precedente. Questa buona notizia è dovuta alla crescita negli ultimi anni della produzione di energia da fonti rinnovabili, all’incremento dell’efficienza energetica nei settori industriali e alla riduzione dell’uso del carbone. Nel 2019, la quota maggiore delle emissioni totali va attribuita ai consumi energetici, con una percentuale pari all’80,5%. Seguono i processi industriali e l’agricoltura, che rappresentano rispettivamente l’8,1% e il 7,1% delle emissioni totali, mentre i rifiuti contribuiscono con il 4,3%.

La nuova strategia europea Farm to Fork

Le produzioni agricole sostenibili rappresentano una svolta in Europa, proprio al fine di tagliare le emissioni di gas serra. Il nuovo e più ambizioso obiettivo di riduzione del pacchetto legislativo europeo Fit for 55 permetterà il raggiungimento della neutralità climatica al 2050 stabilita nella strategia europea del Green Deal. La strategia Farm to Fork (“Dal produttore al consumatore”) prevede entro il 2030 la riduzione del 20% dell’impiego di fertilizzanti e del 50% dell’impiego di pesticidi, oltre alla destinazione ad agricoltura biologica del 25% della superficie agricola europea.

La sostenibilità cambia il volto dell’agricoltura. Qui il digitale promuove:

  • l’agricoltura di precisione;
  • la lotta integrata ai parassiti;
  • il miglioramento genetico al vertical farming;
  • l’affinamento continuo delle tecniche tradizionali.

Ma il cambiamento delle abitudini alimentari ha un ruolo importante: a parità di potere nutritivo la carne ha un impatto sull’ambiente superiore rispetto agli alimenti vegetali. Il consumo pro capite di carne, dopo aver toccato un massimo di 100 kg l’anno nei primi anni 2000, è ora di quasi 80 kg, per effetto dei cambiamenti nelle preferenze dei consumatori e dell’invecchiamento della popolazione.

Nel 2019 le aziende agricole e zootecniche hanno contribuito per il 7% alle emissioni nazionali (pari a 29,5 milioni di tonnellate), di cui l’80% proviene dalla gestione degli allevamenti. Al restante 20% contribuiscono per metà i fertilizzanti di sintesi, e per l’altra metà la coltivazione del riso e altre sorgenti minori.

L’agricoltura italiana consuma 114.000 tonnellate l’anno di pesticidi: sono circa 400 sostanze diverse, utili ma al contempo pericolose. Farm to fork prevede il dimezzamento dell’uso dei pesticidi entro il 2030, e propone:

  • portare al 25% la superficie agricola coltivata secondo i disciplinari biologici entro il 2030;
  • in Italia hanno già scelto l’agricoltura biologica 80.000 aziende agricole, per un totale di 2 milioni di ettari, il 16% della superficie agricola.

Innovazioni in agricoltura

L’uso dei pesticidi si riduce con più innovazione:

  • impiego di tecniche di difesa integrata, oggi obbligatoria (meno tossiche e meno persistenti nell’ambiente);
  • l’introduzione di sensori avanzati di Agricoltura 4.0;
  • l’osservazione satellitare, unita alle tecnologie dell’agricoltura “di precisione”, che permette di dare in ogni punto del campo solo l’acqua, il fertilizzante e i pesticidi effettivamente necessari, riducendone l’impiego;
  • il miglioramento genetico per creare varietà più resistenti alle malattie, con meno bisogno di fertilizzanti o acqua;
  • evitare l’aratura o ridurre al minimo i consumi di acqua (attraverso idroponica).

La strategia “Farm to Fork” dell’Unione Europea per l’agricoltura sottolinea che il passaggio a una dieta più vegetale con meno carne rossa e processata ridurrà il rischio di malattie e l’impatto ambientale dell’attuale sistema alimentare dell’UE.

Più trasporti sostenibili

Per ridurre le emissioni di CO2, la transizione ecologica passa anche dal mondo dei trasporti. La mobilità deve infatti diventare più sostenibile anche perché, dopo Liechtenstein e Lussemburgo, l’Italia è il terzo paese europeo con il più alto numero di veicoli per abitante. Oltre 60 automobili ogni 100 abitanti, contro i 54,2 della media dei 4 Paesi più importanti (Italia, Francia, Germania, e Spagna).

In Italia nel 2019 il trasporto su strada è la principale fonte di emissioni di ossidi di azoto (40,3% del totale emesso), nonostante l’introduzione dei dispositivi catalitici grazie alla normativa Euro 1 e l’installazione dei dispositivi di riduzione catalitica selettiva (SCR) nei diesel recenti abbiano ridotto le emissioni del 74,6%.

L’eccessivo uso dell’auto diminuisce l’attività fisica, una delle cause dell’obesità, patologia in aumento nella maggior parte degli Stati membri dell’UE: il 51,6% della popolazione dell’UE (di età pari o superiore ai 18 anni) è in sovrappeso nel 2014 e il 15,4% obeso.

La sostenibilità digitale riveste un ruolo di primo piano per rendere i trasporti meno inquinanti. Innanzitutto, occorre ridurre l’uso dell’automobile: per esempio è possibile ricorrere alla mobilità attiva, a piedi o i bicicletta, per combattere l’inquinamento e il rischio obesità, grazie all’uso di applicazioni mobili. In ambito trasporto merci, l’Europa da anni promuove il passaggio all’uso dei treni su ferrovia. Infine, il trasporto merci può avvenire a zero emissioni, grazie all’introduzione di veicoli elettrici, a idrogeno e di altre tecnologie. Infatti, Bruxelles ha fissato che dal 2035 non si produrranno più i motori endotermici proprio per favorire la transizione ecologica.

Le tre aree di investimento per la mobilità sostenibile

Nella direzione della mobilità sostenibile, le principali linee di investimento sono tre: innanzitutto, occorre rafforzare la mobilità sostenibile pedonale e ciclabile realizzando 570 km di piste ciclabili urbane e 1.200 km di ciclovie turistiche. In secondo luogo, servono interventi a favore del trasporto e dei punti di ricarica pubblici in Italia, a partire da oltre 230 km di nuove linee fra metropolitane (11 km), tram (85 km), filovie (120 km) e funivie (15 km), in modo da spostare almeno il 10% dall’uso di mezzi privati a quelli pubblici. La terza linea di investimento riguarda lo sviluppo di una rete infrastrutturale di ricarica elettrica pubblica con 7.500 punti nelle superstrade e altri 13.750 punti nelle città, oltre a 100 stazioni di ricarica sperimentali a idrogeno per automobili e autocarri, per mettere le fondamenta di un’infrastruttura per far circolare circa 6 milioni di veicoli elettrici in Italia entro il 2030.

I principali obiettivi del Green Deal europeo e della Strategia europea per la mobilità sono però sfidanti:

  • almeno 30 milioni di veicoli a emissioni zero entro il 2030 e la quasi totalità per il 2050;
  • navi e aerei a emissioni zero fra il 2030 e il 2035;
  • raddoppio del traffico ferroviario ad alta velocità per il 2030;
  • la triplicazione entro il 2050;
  • aumento del 50% del traffico merci su rotaia entro il 2030;
  • raddoppio per il 2050;
  • minimizzazione degli incidenti stradali, ora responsabili di più di 20 mila vittime all’anno in Europa e 3.000 in Italia.

Gli obiettivi per la neutralità climatica al 2050 sono l’accelerazione della transizione verso una mobilità sostenibile e intelligente e la riduzione del 90% delle emissioni di gas serra dai trasporti rispetto al 1990. Proprio per cercare di raggiungere gli obiettivi europei, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza prevede investimenti nel periodo 2021-26 per oltre 30 miliardi di euro sulla rete ferroviaria nazionale (alta velocità/capacità) e regionale, sul trasporto intermodale e mobilità elettrica, ciclabile e pedonale e trasporto pubblico e infine su oltre 31 mila punti di ricarica elettrica per veicoli. Dopo il 2030, l’obiettivo della decarbonizzazione completa prevede infatti almeno il 50% delle motorizzazioni elettriche, e il resto a idrogeno, biocarburanti e carburanti sintetici a impatto zero. Circa 9 miliardi di euro serviranno alla conversione ecologica della mobilità locale ai fini della decarbonizzazione, per migliorare la qualità della vita attraverso il decongestionamento del traffico e infine per abbattere l’inquinamento dell’aria e acustico.

Il settore manifatturiero

Lo sviluppo sostenibile non può prescindere dalla decarbonizzazione del manifatturiero. L’Italia, dopo la Germania, è infatti la seconda economia manifatturiera d’Europa. La nostra industria, da cui l’Italia ricava un relativo benessere, è un pilastro dell’economia nazionale con:

  • circa 400 mila imprese;
  • 4 milioni di addetti, pari a circa il 23% dei totali addetti delle attività produttive nazionali;
  • 300 miliardi di euro di fatturato, con un valore aggiunto di 300 miliardi;
  • l’industria italiana occupa il settimo posto nel mondo per il valore aggiunto;
  • il nono posto per le esportazioni;
  • a livello europeo, è al secondo posto per il valore aggiunto, dopo la Germania, e al quarto posto per export, dopo Germania, Francia e Paesi Bassi.

Ma il settore manifatturiero genera anche circa 29 milioni di tonnellate di rifiuti speciali (19% della produzione complessiva nazionale, di cui il 13% costituito da rifiuti pericolosi, in qualche caso purtroppo illecitamente smaltiti).

L’inquinamento di origine industriale è tuttavia in diminuzione da tempo grazie all’adozione di tecnologie più green. L’industria manifatturiera registra una continua diminuzione delle emissioni inquinanti: oggi quasi la metà rispetto ai livelli del 1990. Un traguardo reso possibile anche dalla riduzione dei consumi finali di energia del 27% rispetto al 1990, grazie a:

  • politiche di efficientamento energetico;
  • abbandono di carbone e petrolio;
  • maggiore utilizzazione di metano e fonti rinnovabili.

Il modello dell’economia circolare

 L’industria manifatturiera sta abbracciando la transizione ecologica, rendendo sostenibili la produzione, le supply chain e perfino il packaging. Ma il modello di produzione e consumo più sostenibile rispetto a quello lineare è l’approccio dell’economia circolare. Infatti, quello lineare permette di ricorrere a risorse naturali per produrre beni che, una volta impiegati diventano rifiuti, perdendo preziose materie prime di cui l’Italia e in genere l’Eurozona scarseggiano.

L’economia circolare, invece, permette di:

  • progettare oggetti da usare più a lungo;
  • fare riparazioni o refurbishing (i dispositivi digitali ricondizionati funzionano benissimo e costano meno);
  • recupero dei materiali al termine dell’utilizzo, in modo tale da reintrodurli nei cicli industriali come materie prime secondarie.

Poiché l’Italia è povera di materie prime, il riciclaggio di rifiuti – in particolare tessili, carta, metalli, vetro, materiali da costruzione – è già da tempo molto praticato. Complessivamente, nel nostro Paese ritorna al sistema produttivo, sotto forma di materia prima secondaria, circa il 19% dei materiali. Si tratta di uno dei valori più alti in Europa.

“Il Pacchetto per l’economia circolare dell’Unione Europea”, già adottato nel 2018 e recepito nell’ordinamento nazionale nel 2020, “stabilisce che entro il 2035”, spiega il Rapporto Ispra, “dovrà essere recuperato il 65% dei rifiuti urbani e lo smaltimento in discarica si dovrà ridurre al 10% del totale dei rifiuti urbani prodotti. L’opzione preferibile è la prevenzione della produzione di rifiuti, seguita dal riutilizzo, dal riciclaggio, dal recupero energetico, mentre in discarica dovrebbe essere destinato solo il residuo non recuperabile. Un’attenzione particolare viene dedicata alle materie prime considerate ‘critiche’, come diversi metalli e le terre rare, indispensabili nell’industria della transizione ecologica, il cui riciclaggio è, dunque, prioritario”.

Per aumentare la circolarità è necessario adottare tre linee di azione:

  • la disponibilità di nuove tecnologie per semplificare il riciclaggio dei materiali come alcuni polimeri di plastica;
  • assicurare sbocchi di mercato per i materiali recuperati, come nel caso ad esempio del compost e del digestato (provenienti dal trattamento della frazione umida dei rifiuti urbani o di molte tipologie di rifiuti speciali);
  • una rete diffusa sul territorio di impianti in grado di trattare o riciclare i diversi flussi di materiali (per garantire alle industrie un approvvigionamento sufficiente e continuo).

È quindi necessario un approccio con una visione integrata della gestione dei rifiuti su una dimensione industriale, che aiuti a connettere (anche attraverso il digitale) in maniera sempre più sistematica recupero dei rifiuti e opportunità di utilizzo.

Riduzioni delle tariffe, buone pratiche negli uffici o nelle scuole, mercatini dell’usato, distribuzione di acqua alla spina, imballaggi/packaging sostenibili, una maggiore consapevolezza diffusa, nuovi comportamenti di consumo stanno promuovendo una corretta gestione dei rifiuti urbani.

La raccolta differenziata rispetto al 2008 è raddoppiata, passando da 9,9 a 18,5 milioni di tonnellate. Nel 2019 la raccolta differenziata in Italia ha raggiunto il 61,3%, permettendo di riciclare circa il 50% dei rifiuti prodotti, ponendo l’Italia fra i primi paesi in Europa.

La media nazionale del conferimento in discarica (pari al 21% dei rifiuti prodotti) è però più del doppio rispetto all’obiettivo europeo. Molto dipende ancora dalla pianificazione regionale. Regioni del Nord hanno già raggiunto l’obiettivo, grazie a pianificazione e realizzazione di impianti necessari (termovalorizzatori eccetera), mentre regioni soprattutto nel Centro-Sud devono  recuperare il divario.

La circolarità del sistema industriale e il suo efficientamento passa attraverso la sostenibilità digitale. Occorre promuovere il mercato delle materie prime riciclate, attraverso strumenti normativi per re-immettere flussi di materia nei cicli industriali e alleggerirli dalla qualifica di rifiuti e mediante adempimenti amministrativi associati.

Il ruolo della sostenibilità digitale

 La fotografia del Rapporto Ispra ci consegna un’Italia che va a due velocità, ma che compie progressi: significativi passi avanti che vanno rafforzati, facendo ora le scelte giuste, sia dal punto di vista strategico che etico, come ha sottolineato Leonardo Becchetti nel suo commento a Tech Economy 2030.

Il digitale può aiutare a rendere l’agricoltura più sostenibile e più produttiva l’economia digitale, effettuare la transizione energetica (cruciale sia per la decarbonizzazione che per i motivi geopolitici ri-esplosi con l’invasione russa dell’Ucraina), per aiutare la mobilità attiva (che migliora la qualità della vita dei cittadini, diminuendo l’inquinamento e i fattori di rischio legati alla salute), rendere il nostro manifatturiero più competitivo e sostenibile con Industria 4.0, e infine più ecologiche le nostre supply chain.

Grazie ai fondi del Next Generation EU e del Green Deal dell’Unione Europea, finalmente l’Italia ha accesso ai fondi per fare tutto ciò che serve per rendere il Paese innovativo, colmare il divario coi Paesi europei più evoluti, aumentare l’occupazione (soprattutto di giovani e donne). Ora tocca a noi salvare il nostro ecosistema, che è anche la nostra ricchezza dal momento che il nostro patrimonio culturale e paesaggistico attrae tanto turismo, e salvare il Pianeta, adottando le strategie giuste per la neutralità climatica.

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