In un precedente articolo abbiamo descritto come analizzare il customer journey e come esso sia uno degli elementi cruciali per impostare un progetto di digital transformation. Nel momento in cui si analizzano i touchpoint tra azienda e consumatori, quello che emerge chiaramente è la necessità di dare senso a questi punti di contatto alimentandoli con dei contenuti opportuni. In un articolo successivo approfondiremo il tema del content marketing, mentre in questo articolo ci soffermeremo sul metodo per rendere la mappatura del customer journey lo strumento attraverso il quale pianificare la strategia editoriale dell’azienda.
L’approccio che suggerisco è quello fare un assessment complessivo non solo dei touchpoint e dei relativi contenuti, ma anche degli skill presenti in azienda al fine di evidenziare le capacità di produrre internamente contenuti, oppure di dover ricorrere a supporti esterni. Ho visto spesso dei progetti multicanale con belle intenzioni che si inceppavano per non aver valutato opportunamente l’effettiva capacità di realizzarli e svilupparli almeno nel medio termine.
In DigitalBreak utilizziamo questo modello che ho sviluppato per l’elaborazione della Content Marketing Strategy denominato CCJ (Content in the Context of the Journey). Alla base c’è la mappatura del Customer journey e dei relativi touchpoint in modo da orientare la pianificazione dei contenuti in base ad obiettivi di business ed in ottica multicanale e multiformato. Il modello si occupa anche di impostare e ottimizzare i workflow relativi la produzione, la pubblicazione e l’analisi delle performance dei contenuti elaborati.
Nei progetti che seguiamo, sia in ambito B2C che B2B, tendiamo a mettere in secondo ordine i canali e le tecnologie puntando invece a identificare in primis gli obiettivi per ciascun “atomo di contenuto”, partendo dal presupposto che l’ideazione e la produzione di contenuti deve essere trasversale in azienda, così come la gestione di fornitori terzi, giornalisti compresi (in luogo dei copywriter con eccessiva vocazione pubblicitaria). Parliamo quindi di “Employee generated content” non solo in termini di storie raccontate dai collaboratori o che trattano di loro, ma di un vero e proprio coinvolgimento multi-dipartimentale nella generazione del senso alla base del brand. Idealmente poi, questo network dovrebbe estendersi anche a tutti gli stakeholder in grado di contribuire a modellare l’identità e il significato del brand stesso.
In ogni caso, si dovrebbe partire dal verificare dove è il cuore contenutistico dell’azienda (intendendo ovviamente “contenuti” in senso lato), chi ha gli elementi professionali ed esperenziali per narrare e descrivere compiutamente i valori. Molto spesso è il team di comunicazione che fa da convogliatore, ma alla base ci possono essere, ad esempio, i contributi della produzione, dell’area R&D oppure delle vendite. O magari si può stimolare un apporto esterno in crowdsourcing, che però non sia solo un hashtag che tenta di acchiappare tweet (sistema peraltro che ha già fallito più volte).
Utile in questo senso l’infografica realizzata da Econsultancy la quale identifica diverse figure professionali di un team ideale di content marketing. Naturalmente è impensabile poter disporre sempre di un tale dream team, ma è fondamentale, come dicevamo, identificare con cura le competenze e la capacità di realizzare effettivamente una produzione per alimentare compiutamente tutti i touchpoint.
Riguardo l’ultima colonna del modello CCJ, ossia quella delle tecnologie, segnalo due interessanti articoli che fanno un’analisi di alcune piattaforme specifiche per il content marketing e dei relativi costi:
Un altro strumento operativo essenziale è il calendario editoriale. Una buona guida è quella realizzata da Blogpros.
Nei prossimi articoli approfondiremo l’importanza strategica dei contenuti tanto da ipotizzare un futuro da publisher per le aziende, anche perché sono la linfa vitale per supportare le tecnologie di marketing automation, altro argomento che andremo ad analizzare prossimamente.
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