4 motivi per cui la trasformazione digitale non è un tema di nicchia

C’è una certa discrepanza tra la quantità di discussioni che si fanno nei convegni e sulle riviste a proposito della digital transformation e quanto in realtà si attua ogni giorno nelle organizzazioni per gestirla. Anche perché spesso ci si trova a fare un salto triplo da un livello di maturità basso ad un desiderata molto sfidante e alla fine il grosso delle persone non sono coinvolte o lo sono in modo molto leggero. Insomma, si tratta in effetti di un tema ancora di nicchia nel quotidiano.

Ci sono però diverse ragioni per dire che questa situazione merita di essere rivista, e alla svelta. 

1) SE SI VUOLE IL CAMBIAMENTO SI DEVONO TOCCARE DELLE LEVE STRUTTURALI

Per anni il digital è stato portato avanti come un elemento a sé stante con pochi legami con il resto dell’organizzazione e tanto meno con le infrastrutture più “hard” come la logistica e l’IT.

Oggi però non è possibile pensare di tenere un approccio così light. IDC FutureScape nel suo Worldwide IT Industry 2017 Predictions scrive che nel corso dei prossimi anni gli sforzi di trasformazione digitale si evolveranno dall’essere un’iniziativa speciale, ad un mutamento che porti l’organizzazione ad essere “nativa digitale” e anche McKinsey nel febbraio 2017 precisa: “una reinvenzione digitale richiede all’amministratore delegato di prendere decisioni difficili.”

Per fare un esempio pratico e recente, ho avuto il piacere di ascoltare al NetComm Forum un caso di successo come quello di Nepresso e in effetti quello che mi è rimasto impresso non è tanto il lavoro pur notevole fatto in termini di applicazioni di e-commerce/digital quanto lo sforzo dietro le quinte per rivedere tutto il backend gestionale e organizzativo, senza cui un progetto di successo non è di fatto raggiungibile.

In effetti, una delle cose belle e a volte terribili dei progetti di omnicanalità è proprio il fatto di portare a nudo certe incongruenze, limiti o semplicemente ambiti di miglioramento dei processi e degli strumenti che altrimenti restano nascosti sotto la routine, e destinati a rimanere immutati fino alla prima e vera crisi del modello di business.

La stessa evidenza può valere nei progetti dove la tecnologia impatta il mondo HR, dove il modo di fare le cose può improvvisamente apparire rigido e poco performante, dopo anni di apparente solidità.

La priorità di rivedere i modelli, se veramente ben colta, porta poi a farsi la domanda (senza risposta univoca) su di chi sia davvero la tecnologia e, in seconda battuta, su chi debba guidare il processo di trasformazione. Almeno su quest’ultimo punto, la risposta non può che essere il vertice aziendale con l’aiuto di figure adeguate a creare il contesto di evoluzione.

2) L’IMPATTO DELLA TECNOLOGIA E’ INEVITABILE E VA GOVERNATO

Il progresso dirompente di questi ultimi anni sta cambiando la nostra vita in senso molto più ampio e per certi versi profondo, e per una serie di circostanze ad aprile ho avuto modo di leggere due libri molto interessanti a tale proposito, Il mondo dato. Cinque brevi lezioni di filosofia digitale e Technology Vs. Humanity: The Coming Clash Between Man and Machine.

In entrambi i casi la riflessione dei due autori tocca con grande profondità il tema del mutamento nel rapporto con il mondo e la percezione della realtà che il progresso tecnologico sta spingendo a grande velocità.

Un cambiamento che non è evitabile e che può essere vissuto consapevolmente oppure subito passivamente, senza che sia a priori un happy end già scritto.

E se questo avviene nella vita dei singoli (dipendenti e consumatori delle aziende) e nella società più in generale, come si può pensare a livello di impresa di potere restare fuori a guardare?

3) IL LAVORO DA FARE IMPATTA UNA DELLE COSE PIÙ COMPLESSE: LA MENTALITÀ DELLE PERSONE

Iteration is doing the same things better.

Innovation is doing new things that creates new value. It changes behavior.

Disruption is changed behavior that does new things and evening makes the old things obsolete”. Brian Solis

Il grande salto culturale è quello di coinvolgere l’intera organizzazione, sotto la leadership del top management, in dei processi che portino davvero valore aggiunto al modo di lavorare e di fare business.

Siamo entrati in un’era necessariamente collaborativa in cui 4 grandi forze abilitanti individuate da Gartner fanno da piattaforma per questo cambiamento: il cloud, il mobile, il social computing e l’informazione (intesa anche come big data).

Attenzione però, tutti questi elementi, che sono già bene o male presenti nelle organizzazioni, non hanno un contenuto intrinseco: il cloud alla fine non è che un modo diverso di concepire un disco fisso, il mobile è sfruttato spesso al 20% del suo potenziale, i dati per avere valore devono essere disponibili a tutti e organizzati in un certo modo. E per finire, come per i tutti i social media anche quelli interni (e gli strumenti collaborativi in genere) traggono il loro valore da ciò che le persone ci mettono dentro, non dalla piattaforma in sé.

Sfatiamo un altro mito infine, non è detto che la Generazione Z ed i Millennial siano maggiormente maturi per un uso ragionato delle nuove tecnologie per un mero fattore anagrafico: secondo alcune fonti il 42% dei giovani non è ben consapevole dei rischi di navigare usando una rete wi-fi aperta, il 40% non protegge all’accesso il proprio smartphone e addirittura il 50% non si preoccupa di controllare le autorizzazioni richieste per l’installazione di app.

Insomma, se le aziende faticano a soddisfare certi bisogni dei nuovi lavoratori, non è altrettanto detto che siano questi a guidare (da soli) il cambio di mentalità senza rischi, che deve invece essere frutto di una solida visione di insieme.

4) LA NECESSITÀ DI UNA LEADERSHIP DIFFUSA

Dove sta dunque l’equilibrio?

A mio avviso, risiede in una visione di lungo periodo molto chiara unita a un diverso modo di concepire la creazione di una rete diffusa di leader, riprendendo un celebre articolo del 2012 sull’Harvard Business Review in cui si dice che “Leadership is a conversation”. 

Come ho scritto anche su queste pagine, l’innovazione risulta spesso anche incrementale e nessuna vera trasformazione avviene davvero in poco tempo e solo con un manipolo di arditi e, se poche persone possono già fare la differenza, solo una cultura diffusa a tutti i livelli può diventare reale cambiamento.

In conseguenza di ciò e dei tre punti precedenti, nessuna organizzazione può relegare ad una nicchia questi temi della trasformazione digitale, ma deve fare in modo che il suo tessuto interno ne sia permeato.

Il tempo rimasto per capirlo prima che sia tardi spesso è davvero poco.

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Si occupa di Digital Strategy dal 2000 con, fin da subito, la convinzione che servano profili in grado di conciliare le logiche di business con una solida conoscenza della tecnologia in modo ibrido. Dal 2006 al 2014 è responsabile del Digital Marketing per un gruppo leader nel settore retail e successivamente, fino al termine del 2016, si occupa all’interno della stessa società dell’intero ecosistema della Customer Technology, facendo in modo di colmare la distanza tra Marketing, Change Management e gestendo l'Innovation Lab interno dell’azienda. Oggi ricopre un analogo ruolo di Digital Transformation a livello global per un importante brand del lusso italiano. Appassionato divulgatore con il blog http://internetmanagerblog.com, è docente in master e in corsi di alta formazione. Oltre ai viaggi digitali, ama conoscere nuovi posti anche nel mondo fisico.

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